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In particolare, il Financial Modemìzation Act, che prevede una sostanziale riforma del Glass-Steagall Act, ha formato o

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Idea Transcript


(a cura di)

Giacomo Luciani

Fondazione Adriano Olivetti

Giacomo Luciani Stanford Research Institute Martin Feldstein National Bureau of Economie Research, Washington Efisio Espa Istituto Universitario Europeo, Firenze David Dollar University of California, Los Angeles J e f f Frieden University of California, Los Angeles Giannandrea Falchi Banca d'Italia Stephan Schulmeister Austrian Institute of Economie Research, Wien Michael D. Goldberg New York University, New York Jan A . Kregel The Johns Hopkins University, Bologna Colin Mayer City University, London J e f f r e y A . Frankel University of California, Berkeley Elvio Dal Bosco Associazione per le previsioni ed informazioni economiche, MONITOR Sebastian E d w a r d s University of California, Los Angeles

Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti



La finanza americana fra euforia e crisi a cura di Giacomo Luciani

© 1 9 8 9 Fondazione A d r i a n o O l i v e t t i

INDICE

Giacomo Luciani

Introduzione

9

Martin Feldstein

Strengthening

the American Financial System

25

Efisio Espa

Il processo di deregolamentazione nel sistema bancario e finanziano americano, 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

1975-1987

Introduzione L'innovazione finanziaria Le tendenze principali sui mercati finanziari americani Il «Securities Acts Amendments» del 1975 Il «Deregulation Act» del 1980 Il «Garn-St. Germain Act» del 1982 Il «Competitive Equality Banking Act» del 1987 Gli squilibri nel sistema finanziario statunitense Deregolamentazione, concorrenza e fallimenti

37 42 45 49 54 55 57 58 64

David Dollar, Jeff Frieden

The Politicai Economy of Financial in the United States and Japan

Deregulation

1. Introduction 2. Analytical Framework: Financial Internationalization and Domestic Regulation 3. The Politicai Economy of Banking Deregulation in the United States 4. The Politicai Economy of Banking Deregulation in Japan 5. Conclusions and Implications

73

y^ 76 80 90 99

Giannandrea Falchi

Il «Glass-Steagall Act», le banche e i gruppi polifunzionali

103

1. Introduzione 2. Il «Glass-Steagall Act» nel contesto di un sistema finanziario in rapida evoluzione 3. Il «Financial Modernization Act» 4. Prospettive per il sistema finanziario statunitense 5. Stabilità e normativa prudenziale 6. Conclusione

105 105 108 109 111 114

Stephan Schulmeister, Michael D. Goldberg

Noise Trading and the Efficiency

of Financial Markets

An Investigation into the Dynamics of Exchange Rates and Stock Prices 1. Introduction 2. Some Observations on the Pattern of Speculative Prices 3. The Profitability of Technical Analysis in the Foreign Exchange Market and in the Stock Market 4. Transaction Costs and the Role of the Futures Market 5. The Stock Market Crash of October 19, 1987: An Out-of-Sample Case Study 6. Concluding Remarks

117 119 121 126 144 147 153

Jan A. Kregel

Technical Change and Innovation in the Organization of Stock Market Trading 1. 2. 3. 4. 5.

Introduction Private Markets, Public Markets and Information From the Cali System to the Specialist System Price Continuity in Continuous Markets Property Owning Democracy Becomes «Money Manager Capitalism» 6. Block Trading and the Specialist 7. Block Trading and Programme Trades 8. Implications for Change in Organization

165 167 167 170 171 174 175 180 185

Colin Mayer

The Influence 1. 2. 3. 4. 5. 6.

of Tìnance on the Takeover

Process

Introduction Taxation The Financing of Acquisitions The Performance of Acquisitions Information Theories of Finance Corporate Finance and the Takeover Process

191 193 195 198 203 205 206

Jeffrey A. Frankel

United States Borrowing from Japan

211

1. Introduction 2. Origins of the Us Borrowing from Japan 3. Implications of the Us Debt to Japan

213 213 227

Elvio Dal Bosco

L'interazione fra i sistemi finanziari americano e tedesco occidentale

241

1. Il quadro di riferimento internazionale 2. L'internazionalizzazione del sistema finanziario della RFT 3. I movimenti di capitali fra la RFT e gli Stati Uniti

243 244 247

Sebastian Edwards

A Market Solution for the Debt Crisis?

251

1. 2. 3. 4.

253 255 264

Introduction The Officiai Debt Strategy and the IMF The Analytics of Debt Forgiveness and Market Based Mechanisms The Debt Crisis and the Secondary Market: Recent Experiences 5. Conclusions

271 281



S. •

INTRODUZIONE

Il crollo del mercato azionario di Wall Street che ebbe luogo il 19 ottobre del 1987 sollevò in molti osservatori il timore che si fosse alla vigilia di una nuova crisi dell'economia mondiale, simile a quella il cui inizio fu segnalato da un analogo crollo nel 1929. Ad un anno di distanza, quel timore sembra essere stato allontanato, ma l'episodio ha suscitato il vivo interesse degli economisti, e numerose sono state le iniziative tese a valutarne il significato. Tra queste si colloca anche il Quaderno che presentiamo al lettore, in cui sono raccolti i contributi discussi nel seminario tenutosi presso il Centro Studi Americani il 18-19 ottobre 1988. La caratteristica distintiva di questa raccolta, rispetto alle altre che sono state proposte, è da un lato l'attenzione alla dimensione internazionale del problema, nella convinzione che il processo di deregolamentazione del sistema finanziario a livello nazionale sia strettamente legata e spinta dalla parallela internazionalizzazione dei flussi finanziari; e, dall'altro, lo specifico interesse per il tema dell'efficienza del mercato, o in altre parole per il quesito se la crescente importanza attribuita ai meccanismi del libero mercato porti in effetti al raggiungimento di un equilibrio, o non rischi piuttosto di condurre a crescente instabilità. E chiaro che la stabilità del processo di internazionalizzazione — deregolamentazione dipende fondamentalmente dalla convergenza dei mercati verso un equilibrio, perché se così non fosse si assisterebbe prima o poi ad una qualche oscillazione catastrofica che costringerebbe i governi ad intervenire e ad invertire la linea di tendenza, ristabilendo controlli e segmentazioni. Da qui lo specifico interesse per lo sbalzo registrato da Wall Street nell'ottobre del 1987 — oscillazione fuori norma o preludio di una crisi più grave? — che però non deve, a parer nostro, essere visto isolatamente, bensì nel contesto più generale dell'evoluzione dei mercati finanziari. Del resto l'esperienza del passato insegna; il crollo del 1929 non segnò soltanto l'inizio della Grande Crisi, ma provocò anche, appunto, l'inversione del processo di internazionalizzazione della finanza, che era stato assai vivace nei decenni precedenti, ed un sensibile aumento dell'in-

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tervento governativo nella regolamentazione dell'attività finanziaria in ciascun paese. La situazione odierna è per molti aspetti diversa da quella di allora, e certamente la diffusione delle politiche anticicliche e l'esistenza di un gran numero di stabilizzatori automatici dell'economia rende meno probabile un ripetersi della Grande Crisi quale venne sperimentata negli anni Trenta — cioè per i suoi aspetti reali. Ma specificamente per quanto riguarda il sistema finanziario, una inversione della tendenza alla deregolamentazione-internazionalizzazione non può essere esclusa, e certo rimane da dimostrare che tale tendenza conduca di persé ad una superiore utilizzazione delle risorse a livello internazionale. Molti, al contrario, argomenterebbero che l'intensificazione dei flussi finanziari internazionali serve soltanto a permettere di rimandare l'aggiustamento di squilibri reali, ma non consente di eliminarli; il più delle volte la dilazione nel tempo significa che il sottostante problema reale diventa più difficile ed intrattabile, anziché più facilmente risolvibile; e quindi in definitiva la disponibilità di credito è più oppiaceo, che ottunde la capacità di reazione dei sistemi economici, che non una cura che consente una più rapida crescita dell'economia internazionale. Come tutti gli oppiacei, anche questo avrebbe i suoi trafficanti e profittatori — nel caso specifico gli intermediari finanziari che fondano i loro guadagni sulle commissioni e gli arbitraggi, senza preoccuparsi della stabilità di fondo del sistema. In questa logica, si afferma, alla banca non interessa più che il debitore sia solvibile, perché il suo profitto è assicurato già dalla commissione che intasca nel momento stesso in cui concede il credito; e all'operatore di borsa non interessa quale possa essere il giusto prezzo di un titolo, ma solo di valutare l'umore del mercato per decidere quando convenga acquistare e quando vendere. Questi comportamenti, talvolta impropriamente chiamati speculativi (cosa esattamente sia la speculazione è difficile definire) possono portare a violente oscillazioni e a crisi di fiducia. Abbiamo detto che il processo di deregolamentazione è strettamente legato a quello di internazionalizzazione dei flussi finanziari. E interessante ripercorrere le tappe dell'internazionalizzazione finanziaria per meglio cogliere questa interrelazione.

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La attuale fase di intensificazione dei flussi internazionali di capitali non è la prima. Già alla fine del secolo scorso e nei primi decenni dell'attuale si ebbe uno sviluppo molto intenso dei flussi finanziari, che venne poi bruscamente interrotto dalla crisi del 1929. Nel dopoguerra, la crescita delle relazioni economiche internazionali è stata centrata in primo luogo sul commercio, ed in secondo luogo sulla crescita dell'investimento diretto e sullo sviluppo delle imprese multinazionali, mentre per molto tempo lo sviluppo dei flussi finanziari è rimasto relativamente arretrato. Gli intermediari finanziari sono stati inizialmente stimolati a proiettarsi in una dimensione internazionale dalla necessità di seguire le imprese industriali loro clienti. In altre parole, all'inizio l'internazionalizzazione finanziaria è apparsa essere un fenomeno indotto dallo sviluppo multinazionale delle imprese industriali. I flussi reali sono rimasti al centro dell'attenzione grosso modo fino alla metà del decennio Settanta. La prima crisi petrolifera (1974) condusse ad un balzo quantitativo degli squilibri delle partite correnti dei principali paesi industriali. Tuttavia, i paesi industriali aggiustarono i loro conti nel giro di un paio di anni, come dimostra l'indice rappresentato nella Figura della pagina seguente. Questo indice rapporta la somma dei valori assoluti degli squilibri commerciali al valore totale del commercio fra paesi industriali e resto del mondo, e avrebbe valore zero nel caso di totale assenza di squilibri commerciali, e valore uno nel caso opposto in cui certi paesi esportano soltanto ed altri sono unicamente importatori. Come mostra la Figura, l'indice crebbe da 0,12 nel 1973 a 0,17 l'anno successivo, ma poi decrebbe a 0,10. Negli anni successivi si verificò una nuova tendenza all'aumento, strettamente legata allo squilibrio commerciale americano, come di nuovo dimostra la Figura. Tuttavia la prosecuzione dell'aggiustamento reale negli altri paesi determinò una nuova riduzione: gli squilibri reali erano allora concentrati nei paesi in via di sviluppo, ed è allora che maturò progressivamente il problema del debito di questi paesi. Ma il punto più importante è la significativa accentuazione degli squilibri nelle transazioni reali che si è verificata negli anni Ottanta in stretta connessione con l'esplosione dello squilibrio commerciale america-

li

no, cui ha corrisposto una intensificazione dei flussi finanziari. Non si comprende la rapida crescita dell'internazionalizzazione finanziaria se non la si vede in stretto collegamento con questo aumento degli squilibri commerciali, ed in particolare col deficit commerciale americano.

Come spesso accade, è difficile discernere con chiarezza la causa dall'effetto: si può argomentare che gli intermediari finanziari abbiano semplicemente fatto il loro dovere, provvedendo un meccanismo per diluire nel tempo l'aggiustamento reale; come si può argomentare, al contrario, che la crescente incidenza degli squilibri reali corrisponda ad un maggior desiderio del pubblico, in particolare in certi paesi, di investire all'estero. Nella seconda ipotesi, il fenomeno sarebbe motivato dalla strategia di investimento del pubblico, e i crescenti squilibri reali sarebbero necessari e «virtuosi»; mentre se i movimenti internazionali di capitali sono interpretati come indotti e precipitati dall'esi-

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stenza di squilibri reali, allora il fatto che questi ultimi abbiano teso ad aggravarsi, anziché ad attenuarsi, sembra indicare l'inevitabilità di una crisi catastrofica in un qualche futuro, per quanto lontano. La questione è di quelle che non hanno soluzione: ambedue i punti di vista devono essere tenuti presenti per comprendere gli avvenimenti degli ultimi anni e quelli degli ultimi mesi. Quel che è certo è che l'intensificazione dei flussi finanziari internazionali non può continuare altro che se gli squilibri reali si aggravano. Si potrebbe immaginare che i flussi finanziari internazionali che interessano ciascun paese possano crescere contemporaneamente in ambedue le direzioni (similmente a quanto è avvenuto col commercio, laddove — contrariamente alle aspettative della teoria — il commercio intraindustriale è cresciuto più rapidamente di quello interindustriale); in tal modo i flussi potrebbero espandersi e il saldo netto ridursi. Ma i prodotti finanziari sono molto più omogenei di quelli industriali, e per quanto si possa immaginare che gli investitori abbiano desiderio di diversificare il loro portafoglio — desiderio che può motivare investimenti incrociati — in pratica i flussi finanziari sono molto più sensibili di quelli reali ai cambiamenti relativi delle principali variabili aggregate, quali il tasso di interesse o il tasso di crescita dei prezzi. Mentre le caratteristiche specifiche dei prodotti industriali fanno sì che sia molto comune che paesi il cui livello dei prezzi sia relativamente elevato continuino ad esportare; la possibilità che significativi movimenti di capitali avvengano da paesi ad alto tasso di rendimento reale verso paesi a basso tasso è molto ridotta. Ne consegue che, in generale possiamo attenderci una prevalenza di movimenti netti nel comparto finanziario, il che vuol dire che lo sviluppo di questi flussi postula necessariamente la continuazione o il peggioramento degli squilibri reali. Questa conclusione non può essere accolta senza inquietudine. E chiaro che in definitiva non è possibile che un paese sia eternamente e crescentemente creditore, ed un altro eternamente e crescentemente debitore: è necessario immaginare una inversione delle posizioni relative, e non è chiaro che questa inversione possa avvenire gradualmente ed ordinatamente. Sussi-

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ste il pericolo che il mercato finanziario sia miope, e incapace di prevedere e gestire l'inversione dei flussi, la quale passerebbe allora attraverso una qualche repentina e probabilmente catastrofica inversione delle aspettative. Si è detto che il salto quantitativo negli squilibri reali dovuto alla prima crisi petrolifera fu la causa iniziale del rapido sviluppo dell'intermediazione finanziaria. Al tempo stesso, esso fu anche il segnale dell'arresto della crescita rapida delle imprese multinazionali, e l'inizio di una fase di ristrutturazione di molte imprese, in particolare americane, che ha, nel suo complesso, portato ad una riduzione del loro grado di multinazionalizzazione. Tuttavia bisogna guardarsi da facili generalizzazioni: se si è ridotta la sete di multinazionalizzazione delle imprese americane, non altrettanto è vero per le imprese di altri paesi, in particolare del Giappone e di alcuni paesi europei, le quali hanno continuato ad investire all'estero, ed in particolare negli Stati Uniti. Certamente, quindi, vi è stato un significativo riassestamento del fenomeno, ma non è chiaro se ciò preluda ad un suo ridimensionamento nel lungo periodo — col ritorno a condizioni piii simili a quelle dell'inizio del secolo, quando gli investimenti finanziari erano molto più dinamici che non quelli diretti — o semplicemente ad una ripresa dopo una temporanea battuta di arresto. In una certa misura, la stabilità della crescita dell'intermediazione finanziaria richiede anche una ripresa dei flussi di investimento diretto: così, il riassorbimento del debito dei paesi in via di sviluppo maggiormente esposti, in particolare latinoamericani, è probabilmente impossibile se non si verifica una ripresa dell'afflusso di investimenti diretti — un punto sul quale torneremo a proposito delle possibili soluzioni di mercato al problema del debito latinoamericano. Una ulteriore importante caratteristica della situazione creatasi dopo la prima crisi petrolifera internazionale è stata la concentrazione di forti attivi finanziari in paesi la cui capacità di assorbimento era strutturalmente limitata. Anche se, in definitiva, l'esperienza ha dimostrato che la capacità di assorbimento è poi aumentata rapidamente — fin troppo nel caso di certi paesi — ciò ha provocato un periodo di accentuata liquidità

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del sistema finanziario internazionale, che si è tradotta nella prevalenza di tassi di interesse molto bassi o addirittura negativi. Non è sorprendente che in tali condizioni gli operatori siano stati spinti a comportarsi poco prudentemente: i crediti a molti paesi latinoamericani vennero concessi sulla carta a breve e medio termine, quando si riferivano in realtà ad operazioni a lungo; e a tasso di interesse variabile. Quando, in risposta alla seconda crisi petrolifera, le autorità monetarie americane mutarono rotta e si verificò una impennata dei tassi di interesse, la crisi divenne inevitabile. Lo stesso fenomeno può essere visto da un punto di vista diverso, centrando l'attenzione sul processo inflazionistico. I medesimi avvenimenti internazionali che abbiamo ricordato portarono anche ad una forte accelerazione del processo inflazionistico dei paesi industriali. L'accelerazione dell'inflazione fu una delle cause immediate del precipitare del processo di deregolamentazione negli Stati Uniti, poiché rese anacronistici i limiti sulla corresponsione di interessi sui depositi in conto corrente e a risparmio. Come si argomenta nel contributo di Frieden e Dollar a questa raccolta, l'erosione dei vincoli venne accelerata dal processo di internazionalizzazione delle principali banche americane. Dunque esiste uno stretto legame fra inflazione, deregolamentazione e internazionalizzazione del sistema finanziario. Al tempo stesso, è inevitabile che il sistema finanziario si trovi ad affrontare delle difficoltà nel corso del processo di rientro dall'inflazione. L'inflazione distorce le prospettive di reddito degli investimenti industriali, e spinge le imprese ad imbarcarsi in immobilizzi che appaiono redditizi solo grazie ad essa. La decelerazione dell'aumento dei prezzi avviene sempre assieme ad un cambiamento della struttura dei prezzi relativi, che modifica le prospettive di profitto dei singoli investimenti. Interi settori dell'economia americana sono rimasti gravemente colpiti dall'inversione di tendenza dei prezzi nel decennio Ottanta, e ciò ha comportato l'impossibilità di recuperare buona parte dei crediti concessi a questi settori; la quale a sua volta ha messo in difficoltà le istituzioni finanziarie, provocando il collasso di parecchie di quelle di minori dimensioni. Possiamo cercare la sostanza comune di queste due diverse

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prospettive sulla stessa vicenda proponendo la seguente generalizzazione: i flussi finanziari sono stimolati dall'esistenza di condizioni di squilibrio (squilibri commerciali internazionali, accumulo di attività finanziarie in paesi a bassa capacità di assorbimento, processo inflazionistico) ma i mercati finanziari hanno difficoltà a prevedere i tempi dell'aggiustamento, e questo finisce col provocarne la crisi. Quella che è stata chiamata disaster myopia in realtà non è soltanto incapacità di prevedere un disastro — che sarebbe tutto sommato comprensibile e scusabile, dato che nessun mercato sarà mai in grado di scontare eventi erratici e catastrofici — bensì piuttosto incapacità di prevedere l'aggiustamento dello squilibrio che inizialmente stimola l'intermediazione finanziaria. Si direbbe quasi che i mercati finanziari abbiano una naturale tendenza a proiettare comunque nel futuro le condizioni del momento, anche quando queste sono palesemente insostenibili nel lungo periodo. I contributi raccolti in questo Quaderno non propongono una visione unicamente ottimistica né una visione univocamente pessimistica del processo di internazionalizzazione finanziaria. Anche l'intervento di Feldstein, che pure nel complesso è forse quello che propone la visione più positiva dell'efficienza dei mercati finanziari, riconosce che vi sono gravi problemi irrisolti. In particolare, la crisi delle Savings and Loans Institutions negli Stati Uniti imporra un onere al bilancio federale che potrebbe superare, secondo le più recenti stime, i 70 miliardi di dollari. Le principali tappe del processo di deregolamentazione sono riassunte nel saggio di Efisio Espa, che pone in rapporto il processo di innovazione finanziaria con l'introduzione di nuove leggi che hanno gradualmente smantellato le barriere che dividevano precedentemente il sistema finanziario americano in diversi comparti ben distinti. La deregolamentazione e l'aumentata concorrenza, argomenta Espa, conducono inevitabilmente, almeno nel breve periodo, ad un aumento dei fallimenti e delle crisi delle istituzioni più deboli. A sua volta, queste crisi debbono essere affrontate con un accresciuto intervento delle autorità preposte alla sorveglianza del mercato finanziario, e per questo motivo si può ipotizzare che la deregolamentazione, cioè l'elimina-

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zione di tutta una serie di limiti legali, si accompagni necessariamente ad un più elevato profilo delle autorità monetarie. Al tempo stesso, se le autorità monetarie fanno la loro parte, e si evita una diffusione delle crisi all'intero sistema finanziario, non vi è motivo di ritenere che il processo di deregolamentazione sia instabile, nel senso che conduca necessariamente ad una crisi catastrofica. Il successivo saggio di David Dollar e Jeff Frieden analizza il gioco degli interessi che ha sostenuto e provocato il processo di deregolamentazione tanto negli Stati Uniti che in Giappone. Il saggio sottolinea tanto le similitudini (in particolare il fatto che il processo di deregolamentazione e di internazionalizzazione è stato trainato dalle banche di maggiori dimensioni) quanto le sostanziali differenze: nel caso giapponese il processo di deregolamentazione è avvenuto più rapidamente e coerentemente, come conseguenza di una scelta cosciente delle autorità di governo e delle banche principali di proiettare il sistema finanziario giapponese verso l'esterno, scelta che è maturata all'inizio del decennio Ottanta. In ambedue i casi, le sollecitazioni provenienti dal contesto internazionale hanno avuto una importanza fondamentale, e il progresso tecnologico nel campo delle comunicazioni e del trattamento elettronico dei dati ha consentito uno sviluppo particolarmente rapido. La proiezione delle banche giapponesi sul mercato americano è stata inizialmente facilitata dal fatto che, a causa delle precedenti barriere regolamentari, la struttura finanziaria americana è caratterizzata da un gran numero di banche di dimensioni relativamente piccole, fra le quali le banche giapponesi hanno potuto trovare numerose occasioni per acquisire delle teste di ponte. Al tempo stesso, la vicenda giapponese offre un interessante caso di adattamento all'aggiustamento. Il sistema finanziario giapponese è stato infatti in grado di finanziare largamente il deficit di bilancio del governo giapponese negli ultimi anni Settanta, ed è stato il graduale riassorbimento del disavanzo fiscale interno che ha spinto le banche a cercare attivamente nuovi impieghi e a impegnarsi con maggior vigore per l'obiettivo dell'internazionalizzazione. Ciò suggerisce che la «miopia dell'aggiustamento» non è necessariamente comune a tutte le banche e a tutti

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i sistemi bancari — una osservazione del resto confermata dal fatto che l'eccessiva esposizione verso i paesi in via di sviluppo dell'America Latina, è prevalentemente un problema delle banche americane, mentre le banche di altri paesi lo hanno saputo evitare. Giannandrea Falchi propone nel suo contributo un'analisi delle proposte tendenti alla abolizione del Glass-Steagall Act, e della parallela crescita di gruppi polifunzionali, i quali svolgono al tempo stesso le funzioni di banche e di agenti di cambio. Le formazioni di gruppi polifunzionali è già ad uno stadio relativamente avanzato, indipendentemente dall'adeguamento del quadro legislativo, e un suo ulteriore sviluppo è probabilmente inarrestabile. Si tratta di una tendenza che pone delle nuove sfide alle autorità monetarie, in particolare impone la necessità di trovare un coordinamento efficace tra sorveglianza bancaria e sorveglianza del mercato azionario, presumibilmente attraverso l'affidamento di ambedue le funzioni ad una unica agenzia. I successivi tre capitoli discutono aspetti dell'organizzazione dei mercati, utili a valutare l'ipotesi che l'instabilità sia dovuta ad inadeguatezze tecnico-organizzative, e sia quindi eliminabile con opportune modifiche. Il primo dei tre capitoli, opera di Stephan Schulmeister e Michael Goldberg, analizza il funzionamento e l'impatto del program trading. Si comprendono sotto questo nome varie tecniche di intervento sul mercato azionario o sul mercato dei cambi che sono basate unicamente sull'andamento dei corsi in un periodo recente e su regole automatiche di intervento. Poiché i dati sull'andamento dei corsi sono noti e disponibili su calcolatore, e le regole automatiche di intervento sono esprimibili come funzioni matematiche, è possibile attivare nel calcolatore un programma di intervento sul mercato (trading program) che a sua volta decide acquisti e vendite senza l'intervento diretto dell'operatore umano. Questo consente di realizzare profitti sull'arbitraggio di oscillazioni anche di brevissimo periodo. I dati che vengono qui proposti sono originali perché dimostrano, attraverso l'analisi delle oscillazioni di brevissimo periodo (giornaliere o orarie), che alcune regole automatiche di intervento consentono in definitiva profitti assai considerevoli. Il punto è in primo luogo che questa possibilità è aperta solo agli opera-

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tori finanziari, e non al pubblico — al quale rimangono invece accollate le perdite. Ma questo è il meno, perché dal punto di vista del pubblico le perdite sono minori e aggiungono solo marginalmente al costo della transazione. L'aspetto più importante è piuttosto che le regole di intervento automatiche sono fondate unicamente sull'evoluzione recente dei corsi, e ignorano del tutto il problema di quale possa essere il prezzo di equilibrio del titolo o della moneta trattata. In conseguenza, se una parte crescente del mercato viene ad essere influenzata da tali regole, il mercato diventa crescentemente irrazionale e instabile. Nel caso del mercato dei titoli, questo sta portando ad una crescente rarefazione del pubblico, che trova troppo pericoloso acquistare titoli direttamente e si rifugia nell'acquisto indiretto, ad esempio attraverso i fondi di investimento. In tal modo, il mercato è crescentemente influenzato da operatori che sono in grado di approfittare del program trading e quindi diventa crescentemente instabile. La situazione è diversa nei mercati valutari, perché vi è sempre una domanda ed una offerta di valuta da parte del pubblico motivata dalla necessità di concludere delle transazioni, e più difficilmente gli operatori finanziari possono giungere a determinare completamente il mercato. Tuttavia, se si considera la crescente importanza degli scambi valutari finalizzati a transazioni finanziarie, anziché commerciali, sussiste il pericolo che il program trading contribuisca ad amplificare, assieme a quella parte della domanda del pubblico motivata da transazioni finanziarie, le oscillazioni delle valute ben oltre il punto di equilibrio (ammesso che un punto di equilibrio stabile diverso dal prezzo fissato di giorno in giorno dal mercato sia definibile; ma questa è una questione diversa). Nel secondo dei tre capitoli dedicati ad aspetti tecnici, Jan Kregel concentra la sua attenzione sulla organizzazione del mercato borsistico di Wall Street, caratterizzata dalla trattazione continua dei titoli e dalla figura dello specialista di titolo, e la contrasta con quella più comune nell'Europa continentale e in taluni mercati londinesi (basata sulla concentrazione delle transazioni per un particolare titolo in determinati momenti e da un fixing del prezzo attraverso un meccanismo d'asta). Kregel sostiene che la crescente importanza dei grandi operatori che

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realizzano transazioni di blocchi di titoli di grandi dimensioni ha gradualmente dirottato una fetta crescentemente importante del mercato «al piano di sopra», sottraendola agli specialisti. Questi hanno visto il loro ruolo gradualmente eroso, e non sono ormai più in grado di assicurare la continuità del mercato, perché non hanno e non possono avere tutte le informazioni necessarie. Si verifica così una oscillazione nel senso di una crescente «privatizzazione del mercato». Kregel, in altre parole, vede una causa strutturale del fatto che il problema dell'insider trading si sia fatto sempre più grave: è il modo stesso in cui è organizzato il mercato a Wall Street e l'incongruenza di quella organizzazione con la crescente importanza di pochi grandi operatori che crea le condizioni per sempre maggiori e facili profitti per chi viene in possesso di informazioni utili a prevedere l'andamento del mercato. Il contributo di Colin Mayer si concentra sul fenomeno delle fusioni ed acquisizioni di imprese da parte di imprese concorrenti, e sulle modalità di finanziamento di queste operazioni. La tesi centrale di Mayer è che il fenomeno delle acquisizioni può essere motivato da. cause finanziarie, cioè dalle imperfezioni del mercato dei capitali, anziché da cause reali, cioè dalla capacità di migliorare, a seguito dell'assorbimento, la gestione dell'impresa, o realizzare economie di scala o altri vantaggi di mercato. Gli ultimi tre capitoli guardano agli aspetti principali dell'internazionalizzazione finanziaria, e cioè, rispettivamente, agli investimenti giapponesi negli Stati Uniti (Frankel), agli investimenti tedeschi negli Stati Uniti (Dal Bosco), e al problema dell'indebitaménto dei paesi in via di sviluppo, in particolare latinoamericani (Edwards). Frankel sottolinea l'enormità quantitativa del debito accumulato dagli Stati Uniti nel corso dell'ultimo decennio e le motivazioni che hanno spinto il pubblico e gli operatori giapponesi ad accrescere tanto i loro investimenti negli Stati Uniti. Il fenomeno pone due quesiti distinti. Nel breve periodo, vi è il pericolo che per un qualche motivo si verifichi uno spostamento nelle preferenze, e che gli investitori esteri decidano di liquidare i loro investimenti negli Stati Uniti; oppure, il che è lo stesso,

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che il pubblico americano decida improvvisamente di aumentare i suoi investimenti all'estero. Questo rischio è accresciuto dalle crescenti interrelazioni finanziarie internazionali; al tempo stesso, viene sottolineato il fatto che gli investimenti giapponesi sono prevalentemente a lungo termine, mentre nei flussi a breve termine il Giappone risulta essere un prenditore netto di fondi. In altre parole, il Giappone ha crescentemente assunto il ruolo di banchiere internazionale, precedentemente svolto dagli Stati Uniti e offre fondi a lungo termine mentre ne assorbe a breve. Ciò significa che gli investitori e le banche giapponesi agiscono — o almeno, hanno agito finora — da elemento stabilizzante nella finanza internazionale, ed in un certo senso questo è rassicurante. Rimane il problema di lungo periodo: non è possibile immaginare che gli Stati Uniti continuino ad accrescere il loro debito indefinitamente — è necessario immaginare che questo debito venga in qualche modo ripagato, il che postula che le transazioni correnti degli Stati Uniti tornino in attivo e il risparmio complessivo — pubblico e privato — torni ad essere positivo. Si possono immaginare vari cammini evolutivi che consentirebbero ciò, nessuno dei quali è privo di problemi. Due punti desidero sottolineare: il primo è la possibilità che gradualmente la percentuale di investimento giapponese che prende forma di investimento diretto — industriale o immobiliare — cresca ulteriormente, dando luogo, per così dire, ad un consolidamento dei debito. Questo non eliminerebbe la necessità di trasferire i redditi connessi, ma ridurrebbe la dimensione del problema. Si torna così al punto che abbiamo già citato, e cioè che sembra necessario, perché il processo di internazionalizzazione finanziaria prosegua in condizioni di stabilità, che vi sia una ripresa della multinazionalizzazione delle imprese ed un più sostenuto ritmo di crescita degli investimenti diretti. Il secondo punto riguarda la connessione con il problema del debito dei paesi in via di sviluppo: in definitiva, se il Giappone continua ad essere risparmiatore netto, e gli Stati Uniti muovono nella direzione di aggiustare il loro squilibrio, sarà necessario riprendere i flussi netti di capitali verso i paesi in via di sviluppo, ciò che, tra l'altro, faciliterebbe il raggiungimento contemporaneo di un at-

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tivo di parte corrente tanto al Giappone che agli Stati Uniti. La ripresa di un afflusso netto di capitali verso i paesi in via di sviluppo, in particolare quelli latinoamericani, è ostacolata dalla incapacità di risolvere il problema del loro vecchio indebitamento, che ne danneggia la creditivorthiness. Non sorprende, quindi, l'attivismo recentemente dimostrato dal governo giapponese nel proporre nuove iniziative volte a risolvere quel problema, che, se non risolto, minaccia di bloccare l'ordinata evoluzione del sistema finanziario internazionale verso un equilibrio più appropriato al grado di sviluppo relativo di ciascun-paese. È dunque di fondamentale importanza il quesito che si discute nel contributo di Sebastian Edwards, e cioè se possano credibilmente esistere delle soluzioni di mercato al problema dell'indebitamento dei paesi latinoamericani, o se, al contrario, non sia necessaria una qualche forma di intervento politico. Negli ultimi mesi si è gradualmente sviluppato un mercato secondario del debito, in cui questo viene ceduto con uno scarto più o meno significativo rispetto alla parità, a seconda del paese. Alcuni paesi latinoamericani hanno in particolare creato speciali meccanismi legislativi per facilitare o regolamentare la conversione del debito, puntando a seconda dei casi alla conversione in investimenti diretti o in nuovo debito con diverse caratteristiche. E oggetto di dibattito se questa soluzione sia o meno nel migliore interesse dei paesi in via di sviluppo interessati, ma in ogni caso non è questo che ci interessa in questa sede. Interessa invece la realistica probabilità che queste ipotesi di conversione possano ridurre significativamente l'esposizione dei paesi interessati, ristabilendone la creditworthiness e così riaprendo la possibilità di un afflusso netto di fondi (che è l'obiettivo ultimo desiderato). L'analisi di Edwards suggerisce una conclusione pessimistica: anche a causa del fatto che le banche stesse non hanno ancora perduto la speranza di recuperare il loro credito per intero, l'incentivo che esse hanno a offrire quote significative dei loro crediti per la conversione al di sotto della parità non è sufficiente a consentire un rientro .significativo del debito. Un intervento politico, che potrebbe includere una forma di conversione forzata, sembra quindi necessario a raggiungere una soddisfacente soluzione del problema.

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I sistemi economici si sviluppano per fasi cicliche, anziché linearmente e proporzionalmente, e questo assioma vale anche per il sistema delle relazioni economiche internazionali. Il passato decennio ha visto una crescita particolarmente intensa delle relazioni finanziarie, e non è certo detto che questa fase sia terminata: almeno in ambito europeo, il 1992 comporterà un ulteriore significativo sviluppo dell'internazionalizzazione, e la progressiva realizzazione di un sistema finanziario europeo integrato. Tuttavia, nemmeno è possibile estrapolare la rapida crescita del passato decennio in assenza di una più vigorosa ripresa della crescita del commercio e dell'investimento diretto. Un sistema internazionale in cui i flussi finanziari crescono indefinitamente solo perché gli squilibri reali non vengono mai aggiustati e diventano progressivamente più gravi non è una costruzione solida. Siccome non si sa bene cosa sia uno squilibrio reale fondamentale, quando e quanto rapidamente sia necessario aggiustarlo, e a chi spetti l'iniziativa, il giudizio sulla solidità della crescita dell'internazionalizzazione finanziaria rimane largamente soggettivo. Una crisi catastrofica non può essere esclusa, ma non vi è forse motivo di avere tanta poca fiducia nell'intelligenza dei governi. E più probabile che questi sappiano, invece, intervenire per eliminare gli ostacoli più gravi: il processo è andato infatti troppo avanti perché possa essere invertito senza costi troppo elevati. Così, accadrà probabilmente con la finanza lo stesso che accade col commercio: il pericolo del protezionismo non è mai definitivamente fugato, ma finora gli interessi favorevoli alla prosecuzione ed intensificazione degli scambi internazionali hanno sempre prevalso. Analogamente, l'internazionalizzazione finanziaria avrà le sue crisi, ma difficilmente si tornerà alle artificiali barriere del passato. Giacomo

Luciani

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STRENGTHENING THE AMERICAN FINANCIAL SYSTEM

Martin

Feldstein

Testo rivisto della presentazione orale fatta dal professor Feldstein a conclusione del seminario (N.d.C.).

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Discussing the strengths and weaknesses of the American financial system one is almost inevitably tempted to focus on the securities market and on developments that led to the stock market crash of October 1987. But the most important problems facing the Us financial system are not the ones related to our securities market, nor those associated with the 1987 stock market crash. Although that crash was certainly dramatic, it did not have any adverse effects on the economy as a whole. Indeed real GNP grew more rapidly in 1988 than it would have been expected to do a year earlier, before the stock market decline. The collapse in the stock market caused the Federai Reserve to abandon the policy that it had been pursuing, a policy of targeting the exchange rate by keeping monetary policy exceptionally tight. The reversai of Federai Reserve policy — increasing the money supply and bringing down interest rates — led to the strong expansion that was experienced in 1988. Immediately after the stock market crash, there were a number of proposals put forward in favor of new governmental regulations of the securities market. Fortunately, in my opinion, virtually ali those proposals have been either rejected or simply allowed to die quietly. Only one proposai has actually been implemented, and that is the decision to stop trading when the stock market moves down more than a certain amount and in any given day. Frankly, I doubt that this change is going to have a significantly favorable effect on the performance of the stock market. Certainly no evidence was offered to suggest that it would, and the analysis in favour of it was casual at best. Rather it appears that that proposai was made and accepted because there was a politicai need to do something, and probably of ali things that might have been done this was the least harmful. The other regulatory proposals that were made in the wake of the stock market crash have been generally either impossible to implement, or have been likely to be harmful. Among those that I would classify as impossible to implement are the proposals to eliminate computerized trading — or to eliminate the

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so called «program trading» — and to eliminate portfolio insurance. Among the things which 'are feasible, but would have been harmful, are the proposals to impose uniform margin requirements on different kinds of financial instruments, or — even worse — to put a tax on ali securities transactions. Fortunately, after seven months of rather uneventful trading on the stock market, together with moderate increases in the level of share prices, politicai interest in new regulations subsided. This is a positive result: our securities markets are not perfect, but voluntary actions taken by the stock exchanges, by the future exchanges and by member firms, are improving the situation. But there are more important problems facing the American financial system. One can list three of them: - first, the widespread bankruptcies among our thrift and savings institutions - second, the developing countries' debt problem, that affects many major centrai banks - third, the declining competitiveness of ali American banks, relative to the securities markets. It may seem that these are quite different problems, but there is in fact a common source to them, that is the sharp increase in inflation of the 1970s. Unfortunately, controlling inflation and bringing it down to a low level is not enough to deal with those problems. If we look back to the 1950s, we see that we had an inflation rate of about 2.5%. In the 1960s the level was about the same, although arising at the end of the decade. Then in the 70s the rate of inflation accelerated substantially, and by end of the decade we had an inflation that exceeded 10%. The inflation rate picked up in 1981, then carne down sharply to about 2% before increasing to the current 4.5% rate. The sharp rise in inflation in the 1970s was the primary cause of the current problems of our financial institutions. Let us start with the thrift institutions: savings and loans associations, saving banks. These were created originally as institutions in which households would make deposits that could be used to finance investment in housing. The interest rates on deposits

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were controlied and kept low, and the loans that these institutions made were typically mortgage loans at fixed and low interest rates. This system worked well, as long as the inflation rate was low and stable. Then in the 1970s as the inflation rate rose, market interest rates were pushed up and institutions with regulated interest rates lost their deposits. In the end the government was forced to allow increases in the regulated interest rates time after time, ultimately to abandon ali controls on them. As a result, the thrift institutions found themselves paying interest rates which were substantially higher than what they were receiving on the old rate mortgage loans, that they had issued in previous years. The Regulatory Authorities responded to this problem by treating it as a temporary one, in the belief that eventually — as new mortgages were put on the books with high interest rate — these institutions would again become profitable. It was seen as a period of transition. The regulators took several steps, which turned out to be serious mistakes. First they relaxed the capital requirements for the thrift institutions to a point where they can now operate with virtually no capital at ali. Second, they eliminated controls on the kind of assets that the thrift institutions could hold, permitting lending to various kind of commercial ventures, and eventually investing in equities: activities which are much riskier than owner occupied housing lending. Despite this increase in risk, individuai deposits continued flow into the thrift institutions, because they were fully insured by the Federai Government though the Federai Savings and Loans Insurance Corporation. To make that insurance even more attractive, the Government increased the limit per account from 40 thousand to 100 thousand dollars. The results of these changes have been disastrous. The equity investments and risky loans that the thrift institutions were allowed to undertake turned sour in many cases. In 1988, about 75% of ali of the thrift institutions were losing money. The insolvent institutions — and about two-third of ali thrift institutions in the USA are insolvent — have an obvious incentive to gamble, to take even greater risks; they have no equity left, and since depositors are nevertheless prepared to provide depo-

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sits because of federai insurance, they have an incentive to attract funds at higher interest rates and use them to invest in even higher yielding assets. The least healthy thrift institutions are the ones which are growing most rapidly, as they bid for and attract funds. With two-thirds of the thrift institutions insolvent, the liabilities, of those institutions exceed their assets by approximately 65 billion dollars, or about 1.5% of United States GNP. The excess of liabilities over assets is increasing at the rate of about 1 billion dollars per month. Depositors continue to leave their funds at these institutions because of the combination of Federai Savings and Loans Insurance and the underlying legai obligations that makes the insurance carry the full force of the credit of the United States Government. Depositors may not be worried, but the regulators — the Federai Reserve and the Government — know that eventually the taxpayers are going to have to pay for the shortfall. Inflation in the 1970s created also the two other problems that I mentioned. With respect to the debt crisis of the developing countries, inflation was of course not the only reason for it, but it was the primary reason. In the 1970s, as the inflation rate increased, interest rates rose less rapidly; as a result, real interest rates carne down, and by the late 1970s they frequently were negative. The developing countries were able to borrow what they regarded as free money, expecting to easily repay it with inflated dollars. Not only were the Latin American and African countries encouraged to borrow: the banks were also encouraged to lend, confident that, with high inflation, it would be easy for the borrower to pay back, and in the expectation that the high rate of inflation would also keep the prices of commodities, which are the primary exports of the developig countries, at high levels. But accelerating inflation as experienced in the late 70s simply could not continue, and when the inflation rate declined real interest rates rose and commodity price fell. The result was that the developing countries could no longer service the debt that they had incurred. I believe that without the rising inflation and falling real interest rate of the 1970s there would not

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have been the excesses of LDC lending: they created the current problem. Finally with respect to the third problem, i.e. the declining competitiveness of our commercial banks relative to security markets, the basic problem is that today the healthy corporations in the USA can borrow at lower costs directly from securities markets, than banks can. Therefore, banks can no longer lend to the best risks in the country. That in turn has created a vicious circle; one in which the increasing riskiness of the banks' portfolios leads to a higher cost of funds, as both lenders and equity investors are reluctant to provide capital to banks, that they see as having riskier and riskier portfolios. The higher cost of funds, in turn, requires the banks to charge higher interest rates which discourage borrowing by the next grade of credit risk. So we have a continually deteriorating risk structure of banks' portfolios, leading to a higher cost of funds and even more risky portfolios. Specifically, what role did inflation in the 1970s play in this process? It was the increase in inflation that led to a process of disintermediation, under the form of an outflow funds from the banks into the newly created money market mutuai funds. Money market mutuai funds were the result of the rising inflation and of the rising interest rates of 1970s. That new mechanism, the money market mutuai funds, by which companies could directly tap the funds of small savers, could just not have developed without the increase in inflation,and" the resulting increase in interest rates. In this way, inflation drew the best borrowers away from the banks. But there was also a second and more fundamental problem: inflation induced the commercial banks to extend a variety of inflation sensitive loans to borrowers in the USA, just as they had extended loans to the developing countries: borrowers in agriculture, in real estate, in the oil sector. They saw land prices increasing more rapidly than the rate of interest, and didn't understand at the time that this was a temporary phenomenon, which could not be sustained in the long run. Builders and real estate speculators also borrowed, because they saw the price of their real estate assets increasing at a greater rate than the

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rate of interest. And oil prices surged during the period of rising inflation, inducing banks to lend on the expectation that someday oil prices would move from 30 or 35, to 40 or 50 dollars a barrel. In ali three or these areas, agricultural loans, real estate loans, oil industry loans, there was excessive borrowing and excessive lending because both the borrower and the lender thought that what was in fact a temporary increase in relative prices would become permanent. Eventually, of course, it couldn't continue. As the inflation rate carne down, the process reversed itself. The widespread failures that occurred in business, in agriculture, and in real estate have created substantial losses that weakened the balance sheets of American commercial banks throughout the country. This led to an increased cost of funds, as both lenders and equity providers became reluctant to put their funds into these weaker financial institutions. Banks, therefore, must now charge more to attract funds, thus setting in motion the vicious cycle in which an increasing cost of funds drives away the best prospective borrowers. What must be done now to address the three problems that the American financial system faces as a consequence of the inflationary excesses of the 1970s? Of course the most important lesson of this experience is that inflation presents hidden dangers and should be avoided. But dealing with the existing problems requires more than just controlling inflation: it needs specific policies to strengthen the financial system in each of these three aspects. Thrift institutions present the most acute of the three problems. The Government of the USA must take substantial and significant steps in 1989 to deal with the currently insolvent institutions; and secondly there must be changes in the rules and in the incentives, to prevent the recurrence of this problem in the future. In dealing with the currently insolvent institutions, the Government has very little choice. The depositors are protected. They will get back the full value of the funds they have deposited up to the maximum of 100,000 dollars per account. That's what they are assured of by the Federai Savings and Loans In-

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surance Corporation, and more recently by legislation which put the full faith of the USA Government behind it. This means that the Government must move to declare the insolvent institutions to be legally bankrupt, merge them in healthy institutions, and infuse government funds into the healthy institutions to compensate them for the liabilities that they accept. The Federai Government through the Home Loan Bank Board, is currently doing this on a small scale. Both reasonable estimates and officiai estimates are rapidly converging in this area, indicating that the scale of the problems in about 75 billion dollars. Secondly it is necessary to prevent the recurrence of this problem, by changing the system of incentives. The basic incentive problem is that there is no restriction on the risks that a thrift institution can take and stili get complete insurance on its deposits; this allows them to bid for funds and then use those federally insured funds to undertake risky investments in order to reap the differential profit. A full remedy to this incentive problem would have three components. First there must be a return to the situation preceding the deterioration of capital requirements that was permitted in the late 1970s, so that thrift institutions actually have their own money at risk. Second there have to be some restrictions on investments in equity positions, on concentrations in particular industries, and on the amount of interest mortgages. Finally — and this would be the most contentious item in terms of the legislative process — there should be some changes in our insurance system, so that instead of providing a full 100% guarantee, which eliminates any concern on the part of depositors, there should be some amount of risk for the depositors as well. Perhaps a 90% insurance by the Government would be appropriate, so that depositors would have at least 10% of their funds at risk. The second problem that we face is the developing countries debt problem, affecting our major money center banks. Frankly Fm relatively optimistic whith respect to that problem: Fve been an optimist since the so-called crisis began, in 1982. Now, six years later, we can no longer cali it a crisis: while the problem xs not solved, the situation is looking better. We have moved

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from the crisis stage to a situation which is crearly evolving towards a solution. Moreover the reality is better than the appearance. The appearance reflects the fact that we are continually engaged in negotiations between the creditors and the borrowing countries, and those negotiations take place on the pages of the international financial press. The creditors issue statements saying that they cannot possibly lend another dollar and the debtors issue statements saying they cannot possibly continue to pay interest on their debt. What is the reality? The reality differs among countries, and I will focus on the major countries which represent the overwhelming portion of the debt, acknowledging that when one looks to some of the smaller and poorer countries, particularly in Africa and Central America, the situation is quite different. But for Mexico as well as for Brazil, Argentina, and Venezuela reality is relatively healthy. The key is that debtors need some additional credit each year, so that they can finance an adequate flow of imports, to support economie growth. But that required additional credit flow is quite consistent with them simultaneously making some repayment on their debt. In general, for these countries to sustain healthy growth, their external debt has to increase by about 4-5% a year, that is by about the rate of inflation. What this means is that the real value of their debt can remain Constant even though the nominai value of their debt is gradually increasing. Since their economies are growing in real terms, that means that debt relative to their real income is actually declining. Moreover since their exports tend to grow even more quickly than income in general, that means that the relationship between debt and exports is falling even more rapidly. Although debt will be increasing during this period, the debtor countries will find it progressively easier to deal with it because it is becoming gradually smaller, relatively to their economies and relatively to their exports. The banks' point of view is somewhat different. Understandably, of course, the banks are reluctant to issue more debt to these countries, especially when they are forced to do so at less than market rates. But already the situation is impro-

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ving, as the weight of the L D C ' S debt on the banks balance sheets is declining relative to their capital position and reserves. What may happen in the future? Well, I believe that the current process will continue. The innovations that we have seen are quite promising, allowing some banks, particularly the smaller banks, to get out of the debt process; and allowing other banks to convert some of their debt into equity or into locai currency investments. IMF and World Bank lending will of course continue to absorb a portion of the increasing capital needs of these countries. But, unless there is a breakdown of politicai will on both sides, I think the situation will continue to improve without a need for some new radicai governmental action. And finally, the declining competitiveness of Us banks and the vicious cycle of increasing risks and increasing cost of funds. The solution to this problem has two aspects: one, that can be solved by the actions of the banks themselves, and the other that would require changes in governmental regulations. The banks must first of ali take steps to reduce the risks of their own situation, so that the cost of funds comes down. That, in turn, has two components: firstly increasing their equity capital, and secondly improving their portfolio. But dealing with this problem requires more than what the banks can do by themselves. It requires changes in government regulations to strengthen the banks, and improve their profitability, so that they can attract both equity and debt at a lower cost. Which regulatory changes are needed? They are basically of two types: - firstly, permitting national banking. in the United States we have left it tb the individuai states to determine whether banks whose headquarters are in other states can do business in their own territory. Fortunately we are breaking down this system of individuai state banking, and this evolution will allow not only economies of scale but also greater diversification of risk; - secondly banks must be permitted to enter into a wider range of financial services, and this too is gradually beginning. The key banking deregulation legislation unfortunately failed in Con-

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gress in 1988, but I am confident that we will see eventual passage of some significant improvements. Let me conclude by emphasizing what I said at the beginning: that although there are problems in our financial system, it is basically healthy. The current problems reflect the sharp increase in inflation in the 1970s, a level of inflation that is unlikely to recur in the years ahead. Equally important, the changes that are needed — increased regulation of thrift and reduced regulation of commercial banks — are likely to be enacted in the near future.

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IL PROCESSO DI DEREGOLAMENTAZIONE NEL SISTEMA BANCARIO E FINANZIARIO AMERICANO, 1 9 7 5 - 1 9 8 7

Efisio Espa

L'autore ringrazia il professor M. de Cecco per i preziosi commenti e suggerimenti su una prima stesura del lavoro; utili osservazioni sono state avanzate anche da P. Catte, R. Daviddi, G. Ferri, C. Frateschi, F. Mattesini e F. Schneider. Come sempre, ogni responsabilità per eventuali errori e omissioni ricade interamente sullo scrivente.



T h e Federai Reserve, consistent w i t h its responsibilities as the Nation's centrai bank, affirmed today its readiness to serve as a source of liquidit y to support the economie and financial system.

Alan Greenspan, 20 ottobre 1987 1. Introduzione

Un'accurata analisi degli elementi che hanno contribuito a cambiare la struttura del sistema bancario e finanziario americano negli ultimi quindici anni si rivela sempre più un compito assai arduo. Rivoluzionarie nuove leggi, continui tentativi da parte degli operatori privati di aggirare le regolamentazioni esistenti, nuovi prodotti e servizi finanziari, affievolimento della distinzione tra banche ed altre istituzioni finanziarie, un aumento globale nel grado di concorrenza, tutti questi e altri fattori hanno condotto a modifiche molto profonde nel panorama finanziario statunitense. Gli agenti svolgono adesso le loro attività in un ambiente concorrenziale completamente nuovo. Allo stesso tempo, e, almeno in parte a causa dei mutamenti appena menzionati, nuove tensioni e segnali di difficoltà hanno interessato i mercati monetari e finanziari americani: marcato aumento nei fallimenti delle banche commerciali, aggravarsi dei problemi di un altissimo numero di thrift institutions (vale a dire dell'insieme di Savings & Loan [S&L] institutions, mutai savings banks e credit unions), incertezze assai difficili da cancellare in relazione alle esposizioni di molte grosse banche commerciali statunitensi nei confronti di vari paesi del Terzo Mondo e dell'America Latina in modo particolare, il drammatico crollo di borsa dell'ottobre 1987. Inoltre, l'insieme dei cambiamenti nel panorama finanziario è avvenuto in un periodo nel quale l'economia americana è passata da tassi d'inflazione a due cifre ad un violento processo disinflazionistico, il dollaro ha raggiunto valori ritenuti impensabili dalla quasi totalità degli osservatori nei confronti delle altre maggiori valute e ha poi attraversato una fase

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di sostanziale deprezzamento (in tempo tuttavia per generare un enorme deficit commerciale che si va riducendo con estrema lentezza) il debito pubblico è salito a proporzioni sconosciute del PIL, almeno in tempo di pace. Ancora, non dovrebbero essere tralasciati il cambiamento nella condotta della politica monetaria dell'ottobre 1979 da parte della Federai Reserve (Fed) e la caduta nel prezzo del petrolio che così enormi difficoltà ha causato in molti stati del Sud-Ovest americano. I miglioramenti nelle tecnologie informatiche hanno inoltre offerto l'opportunità di forti riduzioni nei costi di trasmissione e trattamento delle informazioni, la volatilità dei tassi di interesse si è enormemente accresciuta e l'interconnessione tra gli Stati Uniti e gli altri mercati finanziari internazionali è diventata sempre più stretta. Una approfondita comprensione di tutti gli eventi appena citati va naturalmente al di là degli scopi di questo saggio, per quanto gli accadimenti «micro» sui mercati monetari e finanziari potrebbero essere ben compresi soltanto in un quadro che includa i legami con le maggiori modifiche «macro» del quadro economico. La semplificazione che è stato quindi necessario adottare ha condotto a limitare l'analisi ai più importanti mutamenti legislativi, cioè i più importanti accadimenti istituzionali, nel tentativo di descrivere accuratamente il nuovo panorama finanziario statunitense venutosi a creare negli ultimi anni. Il saggio tenterà tuttavia di andare oltre una mera lista di fatti: verrà infatti suggerita l'opportunità di legare i cambiamenti nella struttura finanziaria americana (originati dal processo di deregolamentazione) con quei problemi e quelle situazioni di crisi emerse recentemente. L'idea che sta alla base di tale possibile collegamento è la seguente: l'aumento nel grado di concorrenza, causato principalmente (anche se non solamente)1 dalla deregolamentazione finanziaria (comprendente sia quella nata per influenze autonome delle forze di mercato sia quella derivante da modifiche della legislazione esistente e dagli specifici pronunciamenti delle courts statunitensi) aumenta la probabilità che si verifichino fallimenti e bancarotte; in una situazione di questo tipo, acquista grande importanza il ruolo delle autorità pubbliche di regolazione e supervisione dei mercati bancari e finanziari, soprattutto nel loro ruolo di lender of last re-

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sort. Ciò accade per il semplice motivo che solo un (rapido) intervento pubblico viene ritenuto capace di fermare il diffondersi delle situazioni di dissesto da una istituzione finanziaria all'altra; alla base di un tale ragionamento si colloca l'assunzione che le crisi originantisi all'interno del sistema bancario e finanziario siano percepite dalla banca centrale (e dagli operatori che in quel momento sfuggono alla crisi del mercato) come più pericolose e potenzialmente capaci di condurre a crisi ancora più vaste che non in altri settori o attività economiche. Se una tale sequenza causale contiene del vero, allora il processo di deregolamentazione può diventare più efficace se i costi derivanti dall'aumento della concorrenza (cioè, in particolare, l'aumento nel numero dei fallimenti) vengono assunti dalle autorità di governo, perlomeno in quella prima fase di transizione e di aggiustamento che segue all'introduzione e alla diffusione delle nuove regole sui mercati. E bene sottolineare come in queste considerazioni non si esprima alcun giudizio di valore sui possibili vantaggi e svantaggi della deregulation: ciò che ci preme porre in evidenza è l'esistenza di una possibile correlazione positiva tra un più alto grado di deregulation (e quindi di concorrenza) e il rafforzamento dei poteri delle autorità di regolazione e supervisione dei mercati finanziari. In sostanza, una maggiore libertà sui mercati finanziari per gli operatori privati e maggiori poteri conferiti alle autorità monetarie non appaiono necessariamente come fenomeni tra loro antitetici. Nel secondo paragrafo cercheremo di esaminare brevemente sia l'emergere dell'innovazione finanziaria che alcuni dei più importanti nuovi prodotti e servizi finanziari ad essa associati; tale analisi verrà seguita nel terzo paragrafo da una descrizione di tre delle più rilevanti tendenze emerse nel sistema finanziario statunitense in tempi recenti: la securitisation (o «cartolarizzazione»), l'integrazione territoriale all'interno del sistema bancario, l'indebolimento della distinzione tra banche e altre istituzioni finanziarie. Il quarto paragrafo si occuperà del Securities Acts Amendments del 1975 mentre i tre successivi analizzeranno i due deregulation acts approvati dal Congresso USA nei primi anni Ottanta riguardanti le banche nonché le principali caratteristiche del Competitive Equality Banking Act dell'estate del 1987,

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mentre l'ottavo paragrafo esaminerà alcuni dei più importanti momenti di crisi venutisi a creare recentemente. Infine, l'ultimo paragrafo cercherà di offrire alcune prime conclusioni sui legami tra deregolamentazione, aumento della concorrenza e l'emergere di situazioni di dissesto economico sui mercati bancari e della finanza. 2. L'innovazione finanziaria

Il termine deregulation viene esclusivamente riferito, in svariate circostanze, a quelle modifiche della legislazione che accrescono la varietà della scelta a disposizione degli operatori privati. Allo stesso tempo, gli ultimi quindici anni hanno visto i tribunali influenzare pesantemente l'attuazione pratica della legislazione bancaria e finanziaria. I tribunali — scrive M. Eisenberg — «sono divenuti gli strumenti tramite i quali la politica bancaria nazionale viene attuata — nei distretti, nelle corti d'appello, fino ad arrivare alla Corte Suprema»2; le conseguenze di tale tendenza sono però anche che — sempre secondo Eisenberg — «si ha un sistema di regolamentazione basato sullo sfruttamento di cavilli giuridici e di pieghe nascoste delle leggi, e non una strategia nazionale centrata sullo sviluppo dei servizi finanziari»3. Il concetto di deregulation deve pertanto coprire tutti quei mutamenti di regole che accadono grazie all'intervento «interpretativo» dei tribunali. Molto spesso inoltre la deregolamentazione viene riferita all'introduzione di nuovi prodotti e servizi finanziari che accrescono la flessibilità nella gestione delle attività e passività da parte delle istituzioni finanziarie, un processo in genere definito come «innovazione finanziaria». Nelle pagine che seguono utilizzeremo il termine deregolamentazione nel suo significato più ampio. Quali che possano essere le sue cause, il processo di innovazione finanziaria è stato una forza decisiva nel condurre alle modifiche nella struttura del sistema finanziario americano. Assieme al processo di inflazione e disinflazione e all'accentuata volatilità dei tassi di interesse, l'innovazione finanziaria è anche responsabile per le modifiche nella legislazione bancaria conte-

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nute nei due deregulation acts approvati dal Congresso all'inizio degli anni Ottanta4. Quella che segue è una breve analisi delle più importanti innovazioni finanziarie e delle più rilevanti tendenze emerse come risultato dell'introduzione di nuovi prodotti e nuove tecniche finanziarie. Alcune delle più importanti innovazioni sono derivate dalle necessità per le istituzioni finanziarie di contrastare l'aumentata volatilità dei tassi di interesse alla fine degli anni Settanta e al principio degli anni Ottanta; a causa delle improvvise variazioni dei tassi di interesse vi era infatti il rischio di altrettanto improvvise perdite. Nel 1977 un certificato di deposito (CD) a tasso variabile apparve sul mercato per iniziativa della Morgan Guaranty Bank di New York; il tasso di interesse del nuovo CD veniva legato al tasso sui buoni del tesoro. Due anni prima, alcune casse di risparmio californiane avevano offerto dei prestiti ipotecari a tasso variabile, anch'essi legati ai tassi dei Treasury Bills; in questo secondo caso, tuttavia, parte dei debitori continuava a preferire i vecchi mutui a tasso fisso per paura di aumenti non desiderati nei tassi di interesse. Anche la rapida diffusione dei financial futures (FIF) può essere spiegata dalla necessità di venire a capo del problema della volatilità dei tassi di interesse. Il primo FIF, introdotto nel 1975 dal Chicago Board of Trade, offriva la possibilità di effettuare transazioni a termine in titoli della Government National Mortgage Association (GNMA); in un secondò momento, tale esperienza si generalizzò rapidamente e in diversi stock exchange statunitensi furono aperti mercati futures anche in titoli del Tesoro americano, in CD, negli indici del prezzo delle azioni e altri strumenti finanziari. I cambiamenti nelle tecnologie facilitarono inoltre l'introduzione dei nuovi strumenti finanziari riducendo il costo di trattamento e trasmissione dei dati. I settori delle carte di credito nell'ultima parte degli anni Sessanta e negli anni Settanta e i cash management accounts a partire dal 1977 furono particolarmente favoriti nell'intrapresa di attività assai profittevoli dalla diffusione e dai miglioramenti tecnologici consentiti dall'informatica. Un passo molto importante in direzione di una maggiore innovazione finanziaria e di una accentuata concorrenza sui mer-

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cati della raccolta dei fondi fu l'introduzione dei Negotiated Order of Witbdrawals Accounts (Now), vale a dire, di conti correnti che remunerano il depositante con un interesse. Come vedremo più avanti, il Deregulation Act del 1980 legalizzò l'uso di questo strumento finanziario apparso per la prima volta nello Stato del Massachusetts nel 1970; oggi è ben noto che l'emissione dei Now da parte di alcune mutuai savings banks fu autorizzata nel 1972 (sempre nel Massachusetts e poco dopo nel New Hampshire). Il timore di una accresciuta concorrenza da parte delle mutuai savings banks, condusse le banche commerciali a opporsi all'utilizzo dei Now; il Congresso accettò temporaneamente il punto di vista delle banche commerciali e decise nel 1974 di limitare agli stati del New England l'introduzione di questa nuova e mascherata forma di conto corrente con pagamento di interessi. Gli Automatic Transfer Savings (ATS) sono stati un altro modo per aggirare i massimali sui tassi di interesse passivi. Com'è ben noto, in questo tipo di conti bancari, i fondi che superano un certo ammontare minimo possono essere automaticamente trasferiti da un deposito a risparmio che garantisce un certo interesse a un normale deposito in conto corrente e viceversa. In tal modo, l'interesse viene in effetti ad essere pagato sul conto corrente, per quanto da un punto di vista strettamente legale è il deposito a risparmio quello che remunera il risparmiatore. Il sorprendente aumento dei tassi di interesse ha anche stimolato la diffusione dei money market mutuai funds ( M M M F ) — una delle innovazioni finanziarie di maggior successo — originariamente introdotta sul mercato nei primi anni Settanta. Il M M M F è un fondo comune che investe in carta commerciale, in CD bancari e in buoni del Tesoro, garantendo quindi una remunerazione degli interessi su queste attività a breve termine. L'investitore tuttavia ha la possibilità di staccare un assegno a fronte del suo investimento nel fondo comune. Come nel caso degli ATS, da un punto di vista legale tale nuovo strumento finanziario non deve conformarsi alle norme che disciplinano gli interessi pagabili sui conti bancari o anche alla normativa sulla riserva obbligatoria, per quanto esso offra molti dei servizi tipici di un normale deposito in conto corrente.

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3. Le tendenze principali sui mercati finanziari americani

Il processo innovativo nei servizi finanziari fa parte di un più vasto insieme di cambiamenti che hanno contribuito a mutare le principali caratteristiche del sistema finanziario statunitense negli ultimi vent'anni: a) Securitisation. Tale termine viene riferito a un'ampia serie di transazioni finanziarie, dalla cessione di prestiti commerciali al pooling di prestiti ipotecari o all'emissione di carta commerciale da parte delle imprese; è anche bene ricordare che nel caso dei cosiddetti mortgage pass throughs, gli scambi erano e sono in grado di diffondersi grazie alle garanzie federali sui mutui della G N M A . Per securitisation si intende anche il crescente ricorso al mercato obbligazionario da parte di imprese a maggiore rischio che in tal modo possono trovare un'alternativa ai tradizionali prestiti bancari. L'intero fenomeno viene percepito come un passaggio dalla tradizionale funzione di intermediazione bancaria a una situazione in cui le relazioni tra creditori e debitori sono più dirette. Ciò si rivela possibile alla luce della migliorata qualità delle informazioni sui creditori e, fatto ancora più importante, sui debitori. Tuttavia, le banche continuano a giocare un ruolo decisivo poiché sostengono (nel senso di garantire) l'emissione di carta commerciale o le altre operazioni finanziarie sopracitate con lettere di credito stand-by (SLC) e/o con loan commitments. L'incentivo per le banche a espandere le loro attività in SLC (COSÌ come in ogni altra attività fuori bilancio) consiste nell'aggirare le norme sulla riserva obbligatoria, in modo particolare dopo che le autorità di regolazione hanno irrigidito le regole che governano i rapporti tra capitale proprio e attività. «Tramite una SLC, una banca è in grado di sostenere la carta commerciale o le obbligazioni di un suo cliente pur senza essere costretta a mantenere il livello di capitale che sarebbe necessario se l'operazione del cliente fosse stata registrata come un prestito»5. Di recente, tuttavia, le autorità di regolazione sembrerebbero inclini a considerare le SLC alla stregua di altre attività da prendere in esame nell'analisi dell'adeguatezza del capitale delle banche6.

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b) Interstate banking. Fino a questo momento il Congresso americano non ha approvato una legge che affronti in maniera completa e razionale il problema della conduzione dell'attività bancaria in stati diversi da quello nel quale è situata la sede centrale dell'istituzione finanziaria; il problema continua ad essere regolato dal McFadden Act del 1927 e dal Glass-Steagall Act del 19337. Tuttavia, per una serie di motivi diversi, i legislatori di ciascuno stato sono stati talmente preoccupati nel concedere a banche di altri stati l'ingresso nelle attività bancarie interne al loro stato che oramai non è errato parlare di un «vasto sviluppo de facto dell 'intentate banking»*. Il rafforzarsi dei legami finanziari tra stati diversi è stato possibile grazie ad un emendamento al Bank Holding Company Act del 1956, il cosiddetto «emendamento Douglas»; quest'ultimo «vietava alle bank holding companies (BHC) l'acquisizione di banche in più di uno stato a meno che le acquisizioni venissero autorizzate specificamente dagli statuti dello Stato in cui era residente la banca da acquistare»9. Nel 1975 il Maine fu il primo Stato ad approvare una legislazione tesa a consentire alle BHC provenienti da altri stati l'entrata nel mercato bancario dello Stato; successivamente, altri stati adottarono delle leggi incorporanti un principio di reciprocità (valido o per singoli stati o per il restante territorio nazionale) in base al quale l'ingresso a banche esterne ad uno stato viene concesso a condizione che lo stesso trattamento venga riservato dagli stati di provenienza delle altre banche alle banche residenti nello stato fattosi promotore della legge. Ad esempio, lo Stato di New York e quello del Massachusetts introdussero nel 1982 leggi basate sul principio della reciprocità a base, rispettivamente, nazionale e statale. Un passo molto importante verso una maggiore integrazione territoriale bancaria è legato alle leggi degli stati del New England la cui validità fu affermata dalla Corte Suprema nel 198510. A partire da quel momento gli stati che consentivano la penetrazione di banche esterne sulla base del principio di reciprocità sono andati costantemente aumentando fino a raggiungere e superare il numero di quaranta. c) Non-bank banks e società non finanziarie. L'intensità della concorrenza sui mercati americani dei servizi bancari e finanzia-

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ri più in generale, si è accresciuta negli ultimi anni anche per via dell'entrata su tali mercati sia di entità giuridicamente non facili a definirsi come le cosiddette non-bank banks (NBB) sia di società non finanziarie (non finance companies — NFC). Le prime possono essere individuate come società che svolgono attività di raccolta di depositi oppure attività di concessione di prestiti, non unendo mai nelle loro funzioni i due aspetti; se ciò venisse effettuato, tali entità istituzionali rientrerebbero nella definizione di «banca» così come sancita dal Bank Holding Company Act. L'emergere della NBB (O anche limited service banks) negli ultimi dieci anni, è l'esempio più limpido di quel processo di interpretazione della legislazione bancaria affidato alle courts e consentito dalle ambiguità dei regolamenti, cui si accennava nell'Introduzione: una banca è da considerarsi tale solo se accetta depositi e concede prestiti; le società che praticano una sola delle due attività, pertanto (almeno nell'interpretazione che favorisce le NBB) non devono essere giuridicamente considerate alla stregua di banche vere e proprie e possono quindi sfuggire all'impalcatura delle varie regolamentazioni alle quali, in caso contrario, dovrebbero assoggettarsi. Il problema delle NBB, tuttavia, va inquadrato nel contesto della lotta condotta da una fetta consistente della finanza statunitense, le grandi banche newyorchesi in particolare, per incrinare i vincoli alla loro espansione geografica visti poc'anzi; lo status di NBB consentirebbe infatti di aggirare anche le proibizione riguardanti l'intentate banking sancite nel McFadden Act. Com'è naturale, le piccole banche locali si sono vivacemente opposte all'espansione delle NBB coinvolgendo immediatamente nella disputa il giudizio dei tribunali11. L'intervento del Congresso, con l'approvazione del Competitive Equality Banking Act nell' agosto del 1987, ha favorito, come si vedrà più avanti, gli oppositori delle NBB; secondo la nuova legge, non potranno più costituirsi società giuridicamente costruite in tale maniera e le attività di quelle già esistenti vengono drasticamente limitate. Già prima dell'approvazione del Congresso, tuttavia, nel 1985, alcune sentenze avevano teso a limitare la facoltà, in particolare del Comptroller of the Currency, di vagliare le richieste di parec-

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chie banche per potersi estendere su altri mercati bancari tramite la struttura di una NBB; ciò si rivelava particolarmente significativo dato l'atteggiamento favorevole che l'allora Comptroller, C. Todd Conover, manifestava nei confronti delle NBB. Per quanto riguarda le NFC, negli ultimi quindici anni in particolare, ma il fenomeno ha origini più lontane, si è assistito alla crescente concorrenza esercitata, ad esempio, da alcune grandi case automobilistiche o da grosse catene di grandi magazzini, nei confronti delle banche commerciali e quindi, dopo i provvedimenti di deregolamentazione dei primi anni Ottanta, di altre depository institutions. Le grosse società non finanziarie si sono introdotte sia sul segmento dei prestiti al consumo, sia su quello dei prestiti commerciali, conquistando in alcuni casi quote molto elevate dei mercati (i crediti rateali per l'acquisto di automobili offrono l'esempio più evidente); l'ingresso sui mercati dei servizi bancari è stato generalmente positivo per le NFC in termini di risultato economico né, occorre aggiungere, ci si poteva attendere un risultato molto diverso data la diversa qualità dell'attività bancaria delle NFC rispetto a quella delle banche commerciali (sia rispetto alle garanzie, alle informazioni su un cliente «finanziario» che è allo stesso tempo acquirente di beni, all'alta frammentazione dei prestiti effettuati — in breve, a un tipo diverso di rischio). In questa situazione, com'è stato notato, «la posizione preminente delle banche si è in qualche modo ridotta sui mercati dei crediti al consumo, dei prestiti commerciali, della raccolta dei depositi»12. Le banche commerciali hanno reagito all'intrusione sui loro mercati tentando di espandere le loro attività (agevolate parzialmente in ciò dai deregulation acts) in attività finanziarie di pertinenza in genere delle banche d'investimento o di altri intermediari finanziari. Tale strategia ha portato a interventi sul mercato monetario (emissione di Money Market Deposit Account, ad es.), all'utilizzo più accentuato di nuovi strumenti come i futures e altre tecniche di copertura (anche per conto terzi), nonostante la selva di autorizzazioni necessarie per poter agire da intermediari, e, in particolare, alle pressioni sempre più insistenti relative alla possibilità di sottoscrizione dei titoli13. È indubbio infatti che solo con norme più flessibili sia in materia di securities

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underwrìtìng che di intentate banking, le banche americane saranno in grado di competere più efficacemente con le NFC e con le grandi banche di investimento. 4. Il «Securities Acts Amendments» del 1975

Il primo provvedimento legislativo di taglio deregolatorio che influenza i mercati finanziari è il Securities Acts Amendments entrato in vigore il 1 maggio del 1 9 7 5 ( S A 7 5 ) . Grazie alle disposizioni più importanti di questa legge, il funzionamento dei mercati di borsa statunitensi veniva radicalmente modificato e orientato verso una struttura molto più ispirata a criteri concorrenziali. Le modifiche del 1975 servirono anche da schema di riferimento per altre riforme finanziarie, in particolare per il c.d. «Big Bang» del 1986 nella Borsa di Londra. Assieme alla incredibile espansione nell'uso di strumenti «derivativi» come i contratti futures e options, le seguenti caratteristiche del S A 7 5 sono responsabili per il nuovo ambiente concorrenziale che si è sviluppato negli ultimi tredici anni nelle borse americane: 1. la fissazione del prezzo sulle commissioni di borsa fu liberalizzata, vale a dire, la struttura delle fixed commissìons veniva eliminata in favore di un sistema in cui le commissioni erano oggetto di contrattazione. Nonostante la decisa opposizione delle autorità del New York Stock Exchange (NYSE), il Congresso fece propria l'opinione che profitti eccessivi venissero guadagnati dagli intermediari di borsa e che di conseguenza regole più concorrenziali dovessero essere introdotte e applicate14. Le argomentazioni contrarie avanzate dal N Y S E si basavano fondamentalmente sulla paura che un'eccessiva concorrenza tra imprese avrebbe condotto ad un aumento nei fallimenti e ad una riduzione della profittabilità per molte delle imprese operanti sul mercato. 2. Un National Market System (NMS) doveva essere istituito dalla SEC secondo delle indicazioni base contenute nella nuova legislazione (aumento complessivo della trasparenza del mercato grazie a una migliore informazione per gli investitori, aumento

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nell'efficienza delle transazioni, regole più chiare nella concorrenza tra brokers, dealers e il mercato). A partire dal momento dell'approvazione della legge, l'idea di legare i mercati di borsa americani è stata applicata in vari modi, in particolare con l'istituzione, nel 1976, del Clearance and Settlement System e, nel 1978, dell'Intermarket Trading System. Il S A 7 5 non fu certo l'unico fattore responsabile dell'accentuazione dei meccanismi concorrenziali all'interno delle borse americane e di New York in modo particolare; i miglioramenti tecnologici — sia all'interno di un singolo stock exchange che nella connessione tra diversi mercati — hanno giocato infatti un ruolo fondamentale; ancora più forte si è rivelato poi l'impatto dovuto all'introduzione (o alla maggiore diffusione) di particolari strumenti finanziari, dai contratti di options all'incredibile varietà dei contratti futures-, occorre poi aggiungere l'emergere dell'upstairs trading market nel quale avvengono prevalentemente contrattazioni per grossi quantitativi di azioni da parte, in particolare, dei grandi investitori istituzionali e delle banche d'investimento. La novità principale è però costituita dall'interazione di questi fattori — nuove tecnologie, nuovi strumenti finanziari, contrattazioni per grossi ammontari — che può e, come vedremo, ha portato a creare, preoccupanti situazioni di squilibrio. Le nuove tecnologie rendono infatti possibili collegamenti prima impossibili tra mercati collocati in località diverse e consentono allo stesso tempo l'utilizzo di programmi di copertura dal rischio di cadute del prezzo delle azioni; le transazioni di grosse dimensioni possono essere organizzate dall' upstairs market e le tecniche di copertura utilizzate si servono dei nuovi strumenti resisi disponibili sul mercato (futures in modo particolare). Come poi verrà messo in rilievo dai rappoti ufficiali sulla crisi di Wall Street dell'ottobre 1987, i pericoli per la stabilità dei mercati di borsa possono provenire dalla creazione di un mercato unico, comprendente mercati dei futures e delle azioni, collegati fra loro in tempo reale, in cui scambi di enorme ammontare vengono eseguiti senza che alcun organismo istituzionale sia in grado di supervisionare efficacemente l'interazione degli operatori tra un segmento e l'altro del nuovo mercato venutosi a creare.

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5. Il «Deregulation Act» del 1980

Il 31 marzo del 1980 il Presidente Jimmy Carter pose la sua firma di approvazione sul Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act of 1980 ( D A 8 0 ) . La legge, che sarebbe divenuta operativa sei mesi più tardi, conteneva varie disposizioni che riguardavano praticamente ogni aspetto dell'ambiente bancario statunitense, dai problemi di controllo monetario della banca centrale alla deregolamentazione strie to sensu, al controllo estero delle istituzioni finanziarie americane. Tuttavia, alla luce degli obiettivi di questo lavoro, gli aspetti più importanti del D A 8 0 sono i seguenti: a) L'autorizzazione a estendere a livello nazionale i conti Now emessi dalle banche di deposito15. Il D A 8 0 prevedeva inoltre che le depository institutions potessero rendere disponibili ai propri clienti quei servizi basati sull'automatico trasferimento dei fondi dei depositi a risparmio a quelli in conto corrente. b) L'eliminazione, da completare gradualmente nel corso di sei anni, dei massimali sui tassi di interesse relativi ai depositi vincolati e a quelli a risparmio16. Il divieto del pagamento degli interessi sui depositi a vista e l'introduzione di limiti pagabili sui depositi vincolati e a risparmio erano stati specificati nella ben nota Regulation Q della Fed. Entrambi i limiti traevano origine dal Banking Act del 1933. La legislazione introdotta dopo la grande crisi bancaria dei primi anni Trenta faceva propria l'opinione secondo la quale l'altissimo numero di dissesti bancari era da ricercarsi in una «eccessiva concorrenza sui depositi [che] aveva costretto le banche a aumentare di colpo e in misura consistente i tassi di interesse pagati sui depositi vincolati e a risparmio»17. I profitti — continua la spiegazione — vennero ridotti e progetti a più alto rischio vennero finanziati, conducendo a una più alta probabilità di fallimento, soprattutto nel caso in cui il ciclo economico fosse entrato nella sua fase discendente. Quali che siano i giudizi su tale interpretazione degli anni Trenta, essa ha costituito uno dei cardini di quell'opinione (un tempo predominante) che sostiene apertamente la necessità

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di un forte intervento federale nella regolamentazione dei tassi di interesse pagati sui depositi. I massimali vennero tuttavia ritoccati a partire dalla metà degli anni Cinquanta, nel tentativo di adeguare agli andamenti del mercato i limiti imposti al livello dei tassi; nel 1966 l'emergere di tensioni inflazionistiche costrinse la Fed a interrompere il processo di adeguamento dei tassi di interesse e a imporre massimali differenziati a seconda del tipo di depositi18. Negli anni Settanta poi, le banche cominciarono ad aggirare la regolamentazione esistente semplicemente evitando di chiamare con il termine «depositi» alcune delle loro passività. La misura prevista dal DA80 implicava che le banche si sarebbero fatte concorrenza tra loro in misura molto maggiore al passato per attrarre i fondi dei risparmiatori. La necessità di eliminare gradualmente i massimali sui tassi di interesse era ovviamente legata in modo cruciale al generale aumento nei tassi sopramenzionato che si verifica nei tardi anni Settanta19. E bene ricordare a questo punto che il Title V del DA80 si occupava anche della eliminazione degli eventuali limiti fissati dai singoli stati, sempre in relazione al pagamento di interessi ai depositanti da parte delle banche. c) L'abolizione degli state usury ceilings20. Vennero eliminati i limiti sul «tasso o sull'ammontare dell'interesse, e su diversi altri costi aggiuntivi», in relazione a vari tipi di prestiti. In particolare, la nuova legge interessava alcune categorie di prestiti ipotecari effettuati dopo il 31 marzo 198021 e prestiti commerciali e agricoli eccedenti l'ammontare di 25.000 dollari. L'aumento dei tassi d'interesse nella seconda metà degli anni Settata aveva reso drammaticamente necessario abolire gli state ceilings-, la situazione era tale che, in particolare, i limiti sui tassi d'interesse pagati per i prestiti ipotecari avevano praticamente bloccato la concessione di nuovi prestiti. d) Un più alto livello dei depositi assicurati dalle varie agenzie di assicurazione federali. Il nuovo livello venne fissato a 100.000 dollari (il precedente era di 40.000) e veniva applicato alle banche commerciali e all'insieme delle casse di risparmio.

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e) Nuovi poteri venivano concessi alle thrift institutions22. Alcuni dei cambiamenti più radicali nella regolamentazione del sistema finanziario statunitense vennero introdotti dal D A 8 0 nel Title IV. L'accelerazione nella crescita dei prezzi e l'aumento dei tassi d'interesse avevano costretto il Parlamento, anche in questa circostanza, a intervenire e a creare una nuova, più flessibile, situazione nella quale lo squilibrio dei bilanci delle thrifts tra attività e passività poteva venire fronteggiato, nelle intenzioni dei legislatori, in maniera più ordinata e sistematica. Di norma, gli assets delle thrifts consistevano in gran parte di prestiti ipotecari a tasso fisso (con scadenze medie sopra i trent'anni) mentre il modo principale per finanziare tali prestiti era costituito da forme di raccolta a breve termine. Le leggi esistenti penalizzavano tutte le varie categorie di thrifts in due modi: da un lato, i massimali sui tassi d'interesse pagati sui depositi e su altri conti bancari rendevano sempre più difficile per le thrifts la concorrenza con altre istituzioni finanziarie in grado di offrire prodotti liberi da controlli sugli interessi e che pertanto erano in grado di seguire le tendenze verso l'alto dei tassi d'interesse; dall'altro lato, le scadenze a lungo termine delle attività concedevano loro una possibilità solo parziale di prestiti effettuati ai tassi di mercato. Le situazioni di insolvenza potevano pertanto diventare realtà per un numero assai elevato di casse di risparmio. Abbiamo visto sopra come l'introduzione dei Now e l'eliminazione in un periodo di sei anni dei limiti sui tassi d'interesse cercasse di rendere le thrift institutions e le banche commerciali molto più competitive nel loro confronto con i M M M F : ora, il Title TV del D A 8 0 diede una risposta al problema della rigidità delle attività delle casse di risparmio tramite una serie di disposizioni; le seguenti nuove possibilità di investimento si riferiscono alle S&L con licenza federale: - l'autorizzazione a investire fino al 20% delle proprie attività in prestiti al consumo, carta commerciale e obbligazioni societarie; - l'autorizzazione a emettere carte di credito23. Le casse mutue di risparmio federali venivano autorizzate dalle disposizioni contenute nel Title IV: - a emettere fino al 5% delle loro attività in prestiti commercia-

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li e alle imprese; restrizioni di carattere geografico si applicavano tuttavia a questa categoria; - a accettare depositi a vista connessi alla concessione di prestiti commerciali o alle imprese-corporate. f) Disposizioni uniformate relative agli obblighi di riserva per tutte le depository institutions. Il D A 8 0 includeva importanti misure per il miglioramento del controllo sugli aggregati monetari della banca centrale24. L'idea alla base di tali indicazioni era che se l'intenzione della Fed era quella di controllare più efficacemente gli aggregati monetari, diventava importante osservare più da vicino le riserve bancarie; ciò significava che gli obblighi di riserva dovevano essere estesi a tutte le banche; in questa maniera, cioè ponendo sullo stesso piano sia le banche affiliate alla Fed sia quelle non affiliate, l'introduzione della nuova legislazione era in grado di compiere un passo decisivo rispetto alla necessità di arrestare la tendenza da parte di un numero crescente di banche all'abbandono della membership presso la Fed; infatti, «a differenza delle banche commerciali non affiliate alla Fed, che spesso potevano soddisfare gli obblighi di riserva imposti dalla legislazione statale detenendo attività remunerate con interessi presso banche corrispondenti, le banche affiliate alla Fed erano obbligate a detenere le proprie riserve in saldi non remunerati presso la Federai Reserve o in liquidità detenuta presso le proprie casseforti»25. Il costo-opportunità di essere una banca affiliata alla Fed andava naturalmente crescendo assieme al generale aumento nei tassi di interesse alla fine degli anni Settanta. Le disposizioni più importanti del Title I sono le seguenti: - estensione degli obblighi di riserva a tutte le depository institutions obbligate a mantenere una riserva del 3% su tutti i conti bancari di 25 milioni di dollari o meno; ove i conti bancari eccedessero i 25 milioni, sulla parte in eccesso veniva applicato un rapporto che andava dall'8 al 14 per cento (la percentuale inizialmente indicata dalla legge fu.il 12%); - alla Fed veniva affidata la facoltà, in circostanze straordinarie, di richiedere alle banche l'ottemperamento ad un ulteriore obbligo di riserva del 4% (al massimo) sui transaction accounts del-

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le banche; la Fed inoltre, poteva, «per un periodo di 180 giorni imporre degli obblighi di riserva su qualsiasi passività delle depository institutions, a prescindere dai limiti sulle percentuali dei conti bancari o dal tipo di passività»26. Altre disposizioni del Title I riguardavano gli obblighi di riserva in relazione a attività estere e il costo per le banche dei servizi della Fed27. 6. Il «Garn-St. Germain Act» del 1982

Il Depository Institutions Act (DA82) (O Garn-St. Germain, dai nomi del senatore repubblicano dello Utah e del rappresentante democratico al Congresso del Rhode Island). Scopo fondamentale della legge era di aiutare a creare condizioni più favorevoli per le thrifts, colpite dal già menzionato incremento dei tassi di interesse28. Da un certo punto di vista il DA82 è un logico proseguimento del DA80; il processo di deregolamentazione dei tassi di interesse veniva rafforzato e l'aumentata libertà da parte delle thrifts di gestire le proprie attività e passività accresceva ulteriormente il grado di concorrenza tra le stesse thrifts e le banche commerciali. Le più rilevanti innovazioni introdotte dal DA82 sono le seguenti: a) le depository institutions venivano autorizzate a emettere i cosiddetti money market deposit accounts (MMDA); l'introduzione di questo tipo di passività per il mercato monetario doveva fornire un'alternativa ai MMMF che attraevano con successo un numero crescente di investitori. I MMDA sono in effetti simili ai MMMF29 e, inoltre, essi non sono soggetti alle restrizioni sul pagamento degli interessi30; anche gli obblighi di riserva erano molto contenuti. In aggiunta a ciò i MMDA venivano assicurati a livello federale e il loro lancio sul mercato sarebbe stato pressoché immediato (dicembre 1982); tuttavia, ad essi venivano attribuite limitate libertà nelle transazioni (come un numero massimo mensile di trasferimenti o di emissione di assegni, sei e tre rispettivamente). E opportuno notare a questo punto che poche settimane dopo l'introduzione dei MMDA, il Deposit Institutions Deregulation Committee (DIDC) (che era stato istituito

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dal D A 8 0 per supervisionare la graduale eliminazione dei massimali sui tassi d'interesse) autorizzò le depository institutions a emettere un altro strumento per il mercato monetario, il conto Swper-Now, le cui principali caratteristiche erano la sua disponibilità, limitata ai detentori di conti Now, un saldo iniziale (da mantenere anche in momenti successivi) di 2.500 dollari (in seguito ridotto e poi totalmente eliminato nel gennaio 1 9 8 6 ) , la possibilità di utilizzo senza restrizioni, le identiche disposizioni relative alla regolamentazione dei tassi di interesse dei M M D A , gli obblighi di riserva simili a quelli di altri conti bancari. b) Alle autorità federali, statali e locali, veniva concesso di detenere conti Now nei propri portafogli. Il DA80 aveva limitato il possesso dei Now a persone e organizzazioni non a fini di lucro. c) Il Title III del DA82 autorizzava le S&L «all'emissione di depositi a vista a persone e organizzazioni che intrattenessero una relazione commerciale con la banca». Il DA80 concedeva solamente alle banche commerciali e alle casse mutue di risparmio la possibilità di emettere depositi a vista. Il Title III inoltre dava mandato al D I D C «di rimuovere per l'inizio del 1984 ogni differenza esistente dei tassi praticati da banche e thrifts e disciplinati dalla Regulation Q»n. d) Le possibilità di investimento delle depository institutions venivano allargate; in particolare, le S&L e le casse di risparmio con autorizzazione federale venivano autorizzate a «concedere prestiti commerciali, crediti in conto corrente, a investire in altre istituzioni coperte da assicurazione»; inoltre, le stesse istituzioni venivano messe in grado di impegnarsi in una serie di finanziamenti (prestiti immobiliari residenziali e non residenziali, crediti al consumo e all'istruzione, titoli delle amministrazioni statali e locali). e) Il Title III diede alle thrifts i poteri necessari per poter modificare i loro statuti (da uno di tipo federale a uno statale,

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da una configurazione giuridica di cassa mutua a una di società per azioni, dallo status di S&L a quello di cassa di risparmio, ecc.). f) Il Title Vili autorizzava le banche e le thrifts statali a «offrire i mutui ipotecari a tasso variabile che vengono permessi alle loro controparti federali». g) Le banche nazionali venivano autorizzate a aumentare la percentuale del loro capitale concessa in prestito a un singolo debitore. La legge aumentò questo limite dal dieci al quindici per cento «in aggiunta a un ulteriore dieci per cento per prestiti coperti da garanzie prontamente disponibili». h) I titoli I e II davano alla Federai Deposit Insurance Corporation ( F D I C ) e alla Federai Savings and Loans Insurance Corporation ( F S L I C ) i poteri e i necessari strumenti legali per affrontare le crisi bancarie e in particolare i problemi di insolvenza delle thrifts. In particolare, «la legge fornisce uno schema grazie al quale sia la FDIC che la FSLIC possono organizzare in situazioni di emergenza l'acquisizione di istituzioni sull'orlo del fallimento a prescindere da barriere di tipo geografico o territoriale»32. Per giungere a questo risultato le agenzie di assicurazione potevano usare poteri di emergenza quali, ad esempio, prestiti alle banche in difficoltà o a quelle istituzioni in grado di acquistarle, messa a punto di fusioni tra banche in preoccupanti condizioni finanziarie, anche nel caso di banche residenti in stati diversi33.

7. Il «Competitive Equality Banking Act» del 1987

L'ulteriore aggravarsi della crisi delle thrifts institutions, unitamente alla necessità di una qualche forma di intervento legislativo sul problema delle non-bank banks ( N B B ) , condusse il Congresso, nell'agosto del 1987, a varare il Competitive Equality Banking Act ( C E 8 7 ) che il Presidente Reagan avrebbe firmato poco tempo dopo. La legge (la prima approvata su materie bancarie dopo il passaggio del D A 8 2 ) dà forse il segnale che la grande spinta verso la deregulation in campo bancario va quantomeno

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rallentando; in particolare, infatti, il CE87 prende posizione in maniera molto decisa sul problema delle NBB: a) proibendo, in maniera retroattiva, a partire dal 5 marzo 1987, l'istituzione di tali «banche» con le caratteristiche viste in precedenza; b) limitando la crescita delle attività al 7% annuo (una volta passato un anno dall'approvazione della legge) per quelle NBB nate prima della data del 5 marzo 1987. Se questi aspetti della legge potevano essere accolti con favore da una parte delle banche commerciali, lo stesso non poteva dirsi per quelle disposizioni del CE87 che ribadivano la separazione tra attività delle banche e sottoscrizione dei titoli di imprese, arrivando addirittura a proibire alle autorità preposte alla regolamentazione del sistema bancario di attribuire nuovi poteri di investimenti alle BHC. Un altro aspetto molto rilevante del C E 8 7 riguarda le thrifts. Con la nuova legge la FSLIC, oramai sull'orlo della bancarotta, veniva autorizzata a emettere, tramite una società appositamente istituita (la Financing Corporation), titoli a lungo termine (non garantiti dal governo) per un ammontare di 10,8 miliardi di dollari (ma con un massimo di 3,75 miliardi l'anno). Inoltre, maggiori poteri di supervisione e un intervento sulle casse di risparmio in crisi e situate all'interno di zone economicamente depresse, venivano affidati al Federai Home Loan Bank Board34. 8. Gli squilibri nel sistema finanziario statunitense

Negli ultimi anni il sistema bancario e finanziario statunitense è stato colpito da una serie di crisi di notevole gravità. Le thrifts in particolare sembrano essere in una situazione assai difficile, per quanto anche il numero dei fallimenti delle banche commerciali si manifesti come un nuovo fenomeno sin dalla crisi bancaria dei primi anni Trenta. Tuttavia, le cifre relative ai dis-

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sesti da sole non danno una descrizione precisa delle tensioni e del senso di incertezza che ha caratterizzato recentemente il sistema bancario statunitense; infatti è necessario prendere in considerazione i salvataggi di banche di notevoli dimensioni (Continental Illinois in primis) così come i problemi di molte grandi banche americane di fronte alla virtuale insolvenza di molti paesi debitori del Terzo Mondo, latino-americani in particolare. Ciascuna di tali vicende ha naturalmente una storia particolare: nel caso delle thrifts, ad esempio, l'indebolimento di alcune aree economiche degli Stati Uniti (il Sud-ovest in generale, il Texas e l'Oklahoma in modo particolare) è stato un fattore decisivo e aggravante mentre, in un altro esempio, l'incapacità (o, per meglio dire, in alcuni casi, l'impossibilità) di molti paesi debitori a mantenere le loro economie a livelli sostenuti di crescita ha reso difficile il raggiungimento degli obiettivi di uno sviluppo più rapido e di un regolare ripagamento del debito estero. Allo stesso tempo, in tutti i casi sopra menzionati, alcuni elementi comuni possono essere tuttavia rintracciati. L'aumento della concorrenza per via di nuove e (relativamente) poco regolamentate istituzioni finanziarie — assieme all'aumento dei tassi d'interesse alla fine degli anni Settanta e ai primi degli anni Ottanta — è probabile che abbia costituito l'origine di molte difficoltà per un numero rilevante di banche commerciali e di thrifts, nonostante le nuove disposizioni contenute nei due provvedimenti deregolatori sopra analizzati (graduale liberalizzazione dei tassi di interesse, nuovi poteri di investimento per le S&L, ecc.) si sforzassero — peraltro in maniera contraddittoria — di rafforzare le capacità concorrenziali delle banche. L'altro aspetto comune a tutte le crisi finanziarie americane degli ultimi anni è l'importanza dell'intervento governativo, non solo da parte — nei casi delle crisi bancarie — delle istituzioni federali specificamente destinate alla protezione del sistema bancario, ma anche attraverso un ampio uso della funzione di prestatore di ultima istanza della banca centrale e del governo più in generale. Esamineremo ora in maggior dettaglio il salvataggio della Continental Illinois, la crisi nel settore delle thrifts e il crollo di borsa dell'ottobre 1987.

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a) Continental Illinois. Il salvataggio della Continental Illinois National Bank da parte della F D I C è un esempio della impossibilità pratica per una grande banca di giungere a una situazione di totale bancarotta. La banca di Chicago era passata negli anni Settanta attraverso un periodo di alti profitti e di importanza crescente tra le più importanti banche americane; un'aggressiva politica dei crediti (in particolare nel settore dell'energia) era stata un successo, nonostante l'evidente rischiosità di alcuni di questi prestiti35. Un primo freno all'ascesa della banca fu il fallimento della Penn Square (dell'Oklahoma) nel luglio del 1982; la Continental subì una perdita di un milione di dollari e un forte abbassamento nel prezzo delle sue azioni. Di colpo la situazione della Continental non appariva più così brillante; il management della banca tentò di fronteggiare la nuova situazione cambiando radicalmente politica: «la crescita-ad-ogni-costo venne abbandonata e la priorità nell'azione della banca divenne il reperimento ad ogni costo di fondi che potessero sostenere i prestiti più deboli già in sofferenza»36; nel frattempo era esplosa la crisi debitoria messicana e la Continental (assieme ad altre grosse banche americane) si trovava coinvolta pesantemente nell'esposizione verso il paese centro-americano. Nonostante questa sfavorevole congiuntura, per circa due anni la 'situazione sembrò migliorare ma nel maggio 1984 la crisi si affacciò in tutta la sua portata. Voci sulla effettiva situazione economica della Continental cominciarono a circolare e, inevitabilmente, cominciarono le richieste di ritiro dei fondi depositati presso la banca. La Continental aveva contato molto sui fondi esteri dopo il fallimento della Penn Square; non è sorprendente che forti ordini di ritiro dei depositi arrivarono sia dal Giappone che dall'Europa37; in poche ore tuttavia il panico investì sia Chicago che gli Stati Uniti. A partire da questo momento cominciò la ricerca di soluzioni che potessero evitare la diffusione della crisi ad altre sezioni del mercato bancario; diventò subito chiaro comunque che il coinvolgimento della Continental nel sistema bancario americano era tale che un fallimento della banca senza alcun intervento di sostegno avrebbe condotto a un disastro ancora più grave38. Il criterio dell'«essenzialità» fissato dal Federai Deposit Insurance Act del

60

1950 veniva in tal modo rispettato, sebbene, probabilmente per motivi differenti da quelli originariamente contemplati nella legge. La FDIC si mosse rapidamente e annunciò che tutti i depositi (anche quelli superiori al limite massimo di 100.000 dollari) sarebbero stati coperti da assicurazione; contemporaneamente, la F D I C , la Fed, l'Office of the Comptroller of the Currency e un gruppo consistente di alcune tra le maggiori banche americane, avanzò una cifra superiore ai 7 milioni di dollari allo scopo di rafforzare le risorse finanziarie della Continental. L'emorragia dei depositi, tuttavia, continuava e la situazione non era certo rischiarata dallo scarso entusiasmo che ciascuna delle grandi banche mostrava rispetto alla possibilità di farsi avanti e diventare proprietaria della banca di Chicago. Nella soluzione che in conclusione fu adottata, la FDIC acquistò il controllo dell'80% delle azioni della banca (parte del capitale azionario consisteva in nuove azioni acquistate direttamente dalla F D I C ) ; l'agenzia di assicurazione acquistò anche quasi 4 miliardi di crediti in sofferenza (seppure scontati al 50%). Venne nominato un nuovo management e la fiducia nella banca si ristabilì gradualmente, per quanto i suoi bilanci continuarono per diversi trimestri a mostrare i segni delle difficoltà incontrate. La sostanziale nazionalizzazione della Continental scatenò un acceso dibattito centrato in particolare sul diverso trattamento che veniva riservato alle grandi banche da un lato e a quelle di minori dimensioni («autorizzate» a fallire) dall'altro. Ora, per quanto sia difficile stabilire rigidi criteri di intervento validi per affrontare situazioni simili a quella della Continental non appare comunque azzardato pensare che nel 1984, con gran parte delle grandi banche americane pesantemente esposte verso l'America Latina (e con voci di problemi finanziari che cominciavano a riguardare anche un'altra grande istituzione bancaria, Manufacturers Hanover), fosse ampiamente giustificata la decisione e l'intervento delle autorità pubbliche a garanzia della sopravvivenza della banca dell'Illinois. b) Il settore delle thrifts. Come visto in precedenza, le due leggi di deregulation dei primi anni Ottanta nonché il CE87 furono in gran parte un tentativo di portare il settore delle thrifts

61

in condizione di poter rispondere alla sfida della nuova concorrenza proveniente dai M M M F e dall'aumento dei tassi d'interesse. Sia le casse mutue di risparmio che le S&L registrarono pesanti perdite nel 1981 e nel 1982; il numero di fallimento di thrifts assicurate con la F S L I C passò da 35 nel 1980 a 252 nel 1982 e il valore delle attività coinvolte nei fallimenti saltò da 2,9 (1980) a 46,8 (1982) miliardi di dollari39. La diminuzione dei tassi d'interesse incominciata nel 1982 aijitò considerevolmente il settore, assieme ai nuovi poteri attribuiti alle thrifts dai DA80 e DA82. Nell'87 e nell'88, tuttavia, il numero e la dimensione dei dissesti è nuovamente cresciuto a dismisura. Le analisi su questa nuova fase mettono l'accento sulla mancanza di adeguata supervisione e efficiente monitoraggio (da parte della F S L I C in modo particolare) e gli incentivi al moral hazard intrinseci nell'attuale sistema di assicurazione dei depositi. Inoltre, come accennato in precedenza, la gran parte dei fallimenti si concentra in aree geografiche colpite da pesanti crisi economiche nelle quali i problemi strutturali che accompagnano le thrifts (lento adattamento a un portafoglio più diversificato, ad esempio) oltre alla concorrenza proveniente da nuove istituzioni finanziarie può essere molto più pericolosa. In considerazione del fatto che la F S L I C è quasi sull'orlo della bancarotta e che le fusioni tra (e le acquisizioni di) casse di risparmio in difficoltà finanziarie potranno coprire soltanto una parte dei costi totali, è facile comprendere perché il peso del salvataggio delle thrifts verrà inevitabilmente sopportato dal contribuente fiscale statunitense. c) Il crollo dì Wall Street. Le vicende del crollo della Borsa di Wall Street sono ormai note e ben documentate40. Secondo la ricostruzione degli eventi data dal Rapporto Brady, il declino del prezzo delle azioni il 19 ottobre fu rafforzato in misura consistente da ordini di vendita legati alle c.d. portfolio insurance hedging strategies di alcune istituzioni finanziarie; tali particolari tecniche di copertura, basate interamente sull'uso di programmi computerizzati, dovrebbero essere in grado di difendere il valore degli stock in possesso di un investitore da diminuzioni nel prezzo delle azioni, tramite la vendita di strumenti futures legati

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alle azioni stesse (stock index futures). Perché queste strategie di copertura funzionino occorre naturalmente che i due mercati (quello dei futures e quello delle azioni) siano efficacemente collegati in modo che gli arbitraggisti possano compiere efficacemente le loro operazioni. Il meccanismo dell'interazione tra i due mercati, così cruciale per l'esplodere della crisi dell'ottobre 1987, è a grandi linee il seguente: nel caso in cui i futures vengano ceduti per coprire repentine diminuzioni del prezzo delle azioni, una volta terminata tale ondata di vendite, i futures stessi verranno venduti a uno sconto rispetto ai valori delle sottostanti azioni; ciò naturalmente spingerà gli arbitraggisti a acquistare i futures e a vendere le azioni. Nell'ipotesi che i futures vengano venduti facendo premio sulle azioni, queste ultime verranno nuovamente acquistate e i futures venduti. Tutta questa sequenza si verificò regolarmente la mattina del 19 ottobre 1987; la situazione del mercato sembrava stabilizzarsi allorché dei fortissimi ordini di vendita di futures partirono da una grossa banca di investimento, giunta alla conclusione che i prezzi delle azioni — nonostante il gioco riequilibratore degli arbitrageurs — sarebbero continuati a calare. Di fronte alla possibilità che tale prospettiva si generalizzasse effettivamente, gli arbitraggisti stessi cessarono di acquistare i futures — che venivano a essere offerti a fortissimi sconti nei confronti delle azioni — creando quindi una cesura tra mercato per le azioni da un lato e mercato per i futures dall'altro. Nello stesso tempo, la domanda di azioni ristagnava — con forte prevalenza quindi delle vendite — per il semplice motivo che ciascun operatore si aspettava che gli arbitraggisti avrebbero continuato a far scendere il prezzo delle azioni date le dimensioni del discount di cui «godevano» i futures. Ciò naturalmente non poteva accadere proprio perché i due mercati erano oramai indipendenti l'uno dall'altro. L'indice Dow-Jones crollò, com'è ben noto, di oltre 500 punti; fu però il giorno successivo, il 20 ottobre, che la situazione giunse vicina al disastro più totale, con la presenza sul mercato, a un certo punto delle contrattazioni, di soli venditori e quindi il concreto pericolo di una caduta libera dell'indice azionario. Fu a quel punto che la Fed assicurò il suo intervento in maniera decisa e credibile, irrorando di liquidità le casse delle banche

63

d'investimento e quindi, indirettamente, finanziando debitori talmente esposti da correre il rischio di immediate bancarotte con, oltretutto, incalcolabili domino e f f e c t s . Il comunicato di A. Greenspan e l'azione della Fed, riportato sulla prima parte di questo lavoro, diedero enorme fiducia al mercato azionario che, per quanto in maniera molto incerta, riprese il suo funzionamento. L'intervento pubblico, nella forma, in particolare, del prestito di ultima istanza, si rivelò pertanto un elemento essenziale nell'evitare un collasso finanziario di proporzioni incalcolabili41. Non è facile connettere crollo di borsa (e salvataggio del mercato da parte della Fed) con la deregulation finanziaria. Le stesse conclusioni del Rapporto Brady e di altri studi sul crollo dell'ottobre 1987, però, inducono a ritenere che la mancanza di norme più strette sui margini di copertura per l'acquisto di azioni (soprattutto nel caso dei futures per i quali i margini si trovavano a livelli bassissimi), l'assenza di un'unica unità di supervisione per i diversi mercati e la mancanza di coordinamento tra i meccanismi di limitazione delle contrattazioni (blocco degli scambi per le azioni, limiti sui prezzi per i futures), si siano tutte rivelate come rilevanti carenze regolatorie. Appare plausibile ipotizzare che esse, unite a un mercato molto più concorrenziale (e, in parte almeno, in fase di alta speculazione), caratterizzato da altissimi volumi di scambi, possano aver condotto ai momenti di panico finanziario dell'ottobre 1987, unitamente ai fattori contingenti sopra descritti.

9. Deregolamentazione, concorrenza e fallimenti

È assai difficile e complicato stabilire un legame analitico e empirico tra la deregolamentazione e i crescenti problemi affrontati da alcuni settori del sistema bancario e finanziario americano. Nessuno studio, fino a questo momento è stato in grado di avanzare spiegazioni rigorose e pienamente convincenti della relazione tra più ampie possibilità di scelta offerte agli agenti e aumento dei fallimenti. Tuttavia, è ugualmente impossibile accogliere il punto di vista secondo il quale la deregolamentazione non ha niente a che ve-

64

dere con le accresciute incertezze e debolezze, così diffuse, abbiamo visto, nel settore delle thrift sin dai primi anni Ottanta, nella borsa di New York nell'ottobre 1987, nel quasi fallimento di alcune grandi banche, nella sostanziale incapacità di molti paesi indebitati a riprendere un flusso costante di pagamenti di interessi sul debito. In effetti, quello che appare difficilmente confutabile è che la deregulation, nel suo significato più ampio, abbia decisamente aumentato il livello di concorrenza nel settore bancario e finanziario americano. Se ciò non corrispondesse al vero, diventerebbe arduo capire l'argomentazione, così di frequente avanzata dai sostenitori della deregolamentazione, che la concorrenza (e quindi anche un suo incremento) sia una fonte di vantaggi per il consumatore e le imprese; l'aumento della concorrenza che si ottiene tramite la deregolamentazione — così continua il ragionamento — può, in determinate circostanze, condurre a costi minori e ad un aumento delle scelte per il consumatore, maggiore flessibilità nella gestione delle attività e passività per le imprese industriali e finanziarie. Tuttavia, e in primo luogo, occorre osservare che un più alto livello di concorrenza, per sua stessa natura, significa (e ha sempre significato) che più rischi vengono assunti sul mercato, in particolare da parte di quella categoria di operatori che si rivela meno avversa al rischio; finanziare e/o intraprendere progetti più rischiosi, a loro volta associati a più alti tassi di rendimento, aumenta la probabilità che un fallimento possa verificarsi. In secondo luogo, dato che persone con identiche caratteristiche esistono solo nel mondo ideale dei modelli con l'«agente rappresentativo», si rivela necessario prendere in considerazione la banale verità che alcuni tra gli operatori sono professionalmente più attrezzati (e/o esperti) di altri; in breve, vi sono persone che ottengono risultati migliori di altre e, quasi sempre, vi è chi è in grado di capitalizzare dei guadagni e chi invece patisce delle «perdite», in modo particolare, in un ambiente che tende a diventare maggiormente concorrenziale; la «perdita», talvolta significa, in termini economici, un fallimento. Nei tre casi visti sopra, allorché la concorrenza aumenta sul mercato, è più probabile che si creino delle situazioni di dissesto; se esse si verificano realmente e se tanto il funzionamento

65

dell'intero sistema finanziario (o di una sua parte) tanto gli interessi dei depositanti sono minacciati, è probabile assistere a interventi governativi (della banca centrale in modo particolare) nei quali vengono prese tutte le misure necessarie per proteggere i risparmi e la fiducia degli investitori e per fermare il rischio di diffusione dei fallimenti. Da questo punto di vista gli Stati Uniti non costituiscono un'eccezione: l'esistenza di autorità governative pronte a intervenire e, inoltre, la sostanziale garanzia assicurata dai poteri fiscali e di creazione della moneta dell'amministrazione centrale, è stata capace, in tutte le circostanze viste sopra, di evitare che la presenza di situazioni di insolvenza potesse trasferire nuovi problemi e incertezze a altre istituzioni finanziarie. Esiste una ben nota argomentazione in base alla quale, in diverse circostanze, è la stessa esistenza della rete di protezione governativa (o tramite il sistema di assicurazione federale sui depositi o attraverso il prestito di ultima istanza) a indurre all'intrapresa di eccessivi rischi. Tale argomentazione, basata sul concetto di moral hazard, è solidamente fondata e talvolta in effetti appare che la configurazione assunta dall'intervento governativo per la salvaguardia dei mercati bancari e finanziari costituisca un incentivo a comportamenti più rischiosi. Questo appare senz'altro vero se ci si riferisce all'attuale struttura (e alla pratica) del sistema statunitense di assicurazione sui depositi non a caso oggetto di un vastissimo dibattito concernente la sua riforma. Tuttavia, un'interpretazione di questo tipo non può essere neanche esagerata; in primo luogo, i piccoli risparmiatori devono essere protetti (e pertanto anche un livello minimo di assicurazione sui depositi deve essere assicurato); in secondo luogo, rimane il problema di come comportarsi quando, ad esempio, un'istituzione finanziaria (magari anche di notevoli dimensioni) si avvicina a una situazione di fallimento oppure quando un mercato di borsa non è lontano dal punto in cui nessuno dei partecipanti al mercato è in grado (o ha il desiderio) di andare avanti con gli acquisti di titoli utilizzando la propria liquidità. Soprattutto a partire dalla disastrosa esperienza del crollo del '29 e delle successive crisi bancarie, nelle circostanze più rilevanti, i governi, incluso quello americano, sono stati spinti

66

a intervenire nel tentativo di risolvere situazioni complicate e potenzialmente esplosive. Pertanto, nel caso dei mercati bancari e finanziari, anche negli Stati Uniti, spesso i «verdetti» del mercato vengono percepiti come (e probabilmente sono) eccessivamente onerosi sia per i segmenti di mercato direttamente interessati alle conseguenze della copertura di tali costi, sia per la società nel suo complesso. Un fenomeno come la deregulation che, oltre che numerosi vantaggi, ha anche i suoi costi, può quindi utilmente sfruttare in pieno tali vantaggi, almeno nella recente esperienza statunitense, solo nel caso in cui l'intervento pubblico esista e si manifesti prontamente allo scopo di ridurre la possibilità di incertezze e fallimenti crescenti. Se ciò corrisponde al vero, e tale è la nostra opinione, si dovrebbe evitare di vedere un'accentuarsi delle spinte alla deregulation e il rafforzamento della presenza governativa sui mercati finanziari come fenomeni l'uno opposto all'altro. Un efficiente intervento governativo si rivela necessario per poter godere pienamente dei vantaggi derivanti dalla rapida diffusione di nuove tecnologie, dai nuovi servizi finanziari e dall'aumento di possibilità di scelta per il risparmiatore42. Potrebbe darsi, naturalmente, che una tale conclusione non sia necessariamente valida nel lungo periodo (del resto sarebbe anche poco auspicabile per il taxpayer americano): dopotutto, la, deregolamentazione e la rapida innovazione finanziaria, sono ancora fenomeni abbastanza recenti e un margine di tempo più lungo potrebbe rivelarsi necessario prima che un completo aggiustamento venga raggiunto nel settore finanziario. Forse, a quel punto, la rete di protezione governativa potrebbe, essere parzialmente sollevata; per il momento tuttavia, appare auspicabile che il processo di deregulation venga accompagnato da un più forte e efficace intervento governativo.

Note 1 Un ruolo di grandissima importanza è stato senz'altro giocato dall'aumento della concorrenza estera sui mercati finanziari statunitensi. Tale aspetto, peraltro analizzato in grande dettaglio da Frieden e Dollar in questo stesso Quaderno, verrà trattato soltanto marginalmente.

67

HEISENBERG ( 1 9 8 7 ) , p . 2 4 . Ubid.

EDWARD KANE ha coniato nel 1977 l'espressione «dialettica regolatoria», diventata ora di vastissimo uso; essa indica la regolamentazione esistente e l'introduzione di nuovi provvedimenti legislativi come risposta alla (nonché come parziale accoglimento della) innovazione finanziaria. In questo lavoro solamente il secondo aspetto di tale dialettica verrà preso in considerazione; condividiamo infatti l'opinione di Albert Wojnilower secondo il quale «alcuni osservatori hanno teso a vedere i mutamenti finanziari negli Stati Uniti come stimolati in primo luogo dal desiderio di aggirare l'intervento governativo. Si tratta in realtà di un punto di vista molto parziale. Il tentativo è stato di capitalizzare sui vantaggi della regolamentazione e di sfuggire ai suoi obblighi. Se il sistema di protezione governativa non fosse stato così diffuso, molte delle nuove caratteristiche del sistema finanziario america4

no non sarebbero state tentate». WOJNILOWER (1987), p. 'SIMPSON ( 1 9 8 8 ) , p. 8. 6

10.

Ciò è in parte il risultato raggiunto dai regulators internazionali e statunitensi

nelle Proposals for International

Convergerne

of Capital Requirement

and Capital Stan-

dards: «Per considerare esplicitamente i problemi connessi al rischio nel valutare l'adeguatezza del capitale, includendo i rischi associati all'insieme delle attività fuori bilancio»; da «Issues in Bank Regulation», Winter 1988. 7 Ad eccezione di alcune norme contenute nel Gam-St. Germain Act del 1982. C f r . NELSON ( 1 9 8 7 ) , p. 13. 8 EISENBERG ( 1 9 8 7 ) , p. 3 9 . 'SAVAGE ( 1 9 8 7 ) , p. 79. 1 0 II pronunciamento della Corte autorizzò «la penetrazione nel New England di bank holding companies provenienti da altri stati, allo scopo di acquistare banche operanti nello Stato, se gli stati in cui le istituzioni avevano il loro mercato principale, avessero accordato gli stessi diritti alle banche del Connecticut e del Massachusetts». EISENBERG (1987), p. 39. 11 Buona parte della storia giuridica che circonda il problema della NBB è conte-

nuta in EISENBERG ( 1 9 8 7 ) , pp. 4 4 - 5 2 in particolare. 1 2 ROSENBLUM, SIEGEL e PAVEL ( 1 9 8 3 ) , p. 12. 13 Sulle tematiche concernenti il superamento del Glass-Steagall Act, si veda più avanti in questo Quaderno il contributo di G. Falchi. 14 La legislazione finanziaria del New Deal (in particolare il Securities and Exchange Act del 1934) «aveva esentato il NYSE da alcune norme della legislazione antitrust americana e fino agli Amendments del 1975, la borsa era stata libera, seppur soggetta all'autorizzazione della Securities and Exchange Commission, di fissare i livelli minimi delle commissioni sugli scambi di azioni». SCHWARTZ (1988), p. 491. È bene notare a questo punto, tuttavia, che il trend verso un sistema negoziato di commissioni era già incominciato nel 1968 quando i «.volume discounts vennero istituiti, su iniziativa del SEC, per transazioni superiori alle 1.000 azioni», SCHWARTZ (1988), p. 144. Successivamente, nel 1971 e nel 1972, la SEC decise che le commissioni su quella parte di ordini eccedenti un certo ammontare (500.000 e 300.000 dollari) dovessero essere negoziate. 15 Tali norme sono incluse nel Title III del DA80, il Consumer Cbecking Account

Equity Act of 1980. 1 6 Si veda Title II del DA80, Depository Institutions 1 7 FEDERAL RESERVE BANK OF CHICAGO ( 1 9 8 0 ) , p. 14. 18

Deregulation

Act

of

1980.

Più in dettaglio, i «tetti» sui cosiddetti passbook savings deposits delle S&L e

68

delle casse mutue di risparmio furono fissati a un livello del 4 % più elevato rispetto ai limiti imposti sui depositi delle banche commerciali, con l'idea di «isolare le thrift institutions e il mercato dei prestiti ipotecari dalla concorrenza delle banche commerciali»; c f r . FEDERAL RESERVE BANK OF CHICAGO ( 1 9 8 0 ) , p. 1 4 . La decisione del

1966 viene vista da molti come uno dei pochi interventi contrari alla deregolamentazione degli ultimi 25 anni. 19 L'eliminazione è stata completata il 31 marzo del 1986; gli interessi non possono essere ancora pagati sui depositi a vista. Per una «cronologia degli eventi» sulla graduale eliminazione delle disposizioni previste dalla Regulation Q, si veda GILBERT ( 1 9 8 6 ) , p. 3 1 . Title V del D A 8 0 , State

20

Usury

Laws.

Gli stati tuttavia avevano la possibilità di ristabilire nuovi livelli degli usury ceilings prima del 1 aprile 1983. 21

22

Title

TV del D A 8 0 , Powers

of Thrift

Institutions

ani

Miscellaneous

Provisions.

Le S&L venivano inoltre autorizzate a investire fino al 5 % delle loro attività in prestiti per l'educazione. 24 Title I del DA80, Monetary Control Act of 1980. Questi aspetti della nuova legislazione andrebbero naturalmente visti nel contesto dei cambiamenti attuali della Fed ai primi dell'ottobre 1979 nel monitoraggio e nel targeting degli aggregati monetari. 23

25

FEDRAL RESERVE BANK OF CHICAGO ( 1 9 8 0 ) , p. 7.

SAVAGE (1980), p. 445. In entrambe le circostanze almeno cinque membri del Board dei governatori della Fed doveva esprimere la propria approvazione; nel secondo caso invece anche il Congresso doveva essere fatto oggetto di consultazione. 27 Title I, inoltre diede alle banche non affiliate la possibilità di indebitarsi con 26

la c.d. discount

window

della F e d .

Secondo GARCIA e altri, «La legge Garn-St. Germain è prima di tutto un'operazione di salvataggio per le S&L e le mutuai savings banks», GARCIA e altri 28

(1982), p. 6.

La nuova legge affermava esplicitamente che essi dovevano essere «direttamente equivalenti e competere con i money market mutuai funds». 30 Ad eccezione dei saldi medi al di sotto dei 2.500 dollari; in questo caso venivano applicati i «tetti» a cui dovevano conformarsi i conti Now. 31 Le citazioni dagli articoli della legge sono tratte da GARCLA E altri (1982), p. 8. 29

32

GARCIA e altri ( 1 9 8 2 ) , p. 9 .

Si veda GARCIA e altri (1983), p. 9. Pochi mesi sono bastati tuttavia per mettere a nudo il corto respiro di tale strategia di intervento, di fronte ai problemi strutturali e alla dimensione del collasso finanziario delle thrifts. Per una critica serrata delle carenze nella gestione della crisi da parte degli organismi di supervisione delle S&L, si vedano le afferma33

34

zioni di DWIGHT JAFFEE a c o m m e n t o di BURNBAUGH-CARRON ( 1 9 8 7 ) . 35 La ricostruzione della storia della Continental Illinois si basa largamente su SPRAGUE (1986). 36

SPRAGUE ( 1 9 8 6 ) , p.

151.

«[La corsa ai depositi] non si materializzò in file di depositanti alle porte della banca; si trattò piuttosto di ritiri di depositi di notevole ammontare da tutte le parti del mondo effettuati a velocità della luce tramite trasferimenti elettronici 3/

di f o n d i » . SPRAGUE ( 1 9 8 6 ) , p.

149.

«[...] oltre duemila banche corrispondenti erano depositanti presso la Continental e una parte di loro — si parlava di cinquanta fino a arrivare a duecento — 38

69

sarebbe stata minacciata o sarebbe crollata per via del collasso della Continental. (In seguito calcolammo che 179 banche avevano più del 50% del loro capitale impegnato nella Continental; 66 di queste erano al di sopra del 100%)». SPRAGUE ( 1 9 8 6 ) , p. 39 40

155.

Cifre tratte da BURNBAUGH-CARRON (1987), p. 357. Si vedano, tra i vari rapporti ufficiali, BRADY et al. (1988), e U.S. SECURITIES

AND EXCHANGE COMMISSION ( 1 9 8 8 ) .

Altri fattori giocarono un efficace ruolo stabilizzatore; ad es., l'esistenza di un vasto e efficiente mercato secondario delle obbligazioni e dei titoli di stato offrì una immediata alternativa ai capitali fuggiti dal mercato azionario. 42 Fermo restando, tuttavia, che se i costi sociali del salvataggio di istituzioni finanziarie in difficoltà fosse eccessivo e/o che la probabilità dell'insorgere di crisi successive fosse legata al mantenimento della legislazione esistente, si potrebbe tranquillamente assistere ad una revisione in senso restrittivo di quella legislazione. Questo sembrerebbe il punto di vista dei rapporti, successivi alle indagini sul crollo di Wall Street, i quali suggeriscono leggi più severe per il funzionamento della Borsa di New York. 41

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Issues, «Economie Review», Federai Reserve Bank of S. Francisco, Spring. ROSENBLUM H., SIEGEL D . and PAVEL C . ( 1 9 8 3 ) , Banks

and Nonbanks:

A Run

for

the Money, «Economie Perspectives», Federai Reserve Bank of Chicago, N. 3. SAVAGE D. Y ( 1 9 8 7 ) , Interstate

Banking

Developments,

«Federai Reserve Bulletin»,

in

Financial

February. SIMPSON T. D.

(1988),

Developments

the

U.S.

System

Since

the

Mid-1970s, «Federai Reserve Bulletin», January.

71

SPRAGUE I. H. ( 1 9 8 6 ) , Bailout

- An Insider's Account

of Bank Failures and

Rescues,

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12

THE POLITICAL ECONOMY OF FINANCIAL DEREGULATION IN THE UNITED STATES AND JAPAN

David Dollar, J e f f Frieden

The authors would like to thank Hans Baerwald, Sebastian Edwards, Louis Pauly, and Frances Rosenbluth for helpful comments and suggestibns.

-,

»



1. Introduction

A wave of financial deregulation is sweeping the industrialized world. From Japan to the European Community to North America, domestic regulatory structures are falling. Almost ali governments are reducing or removing geographical and functional barriers among financial markets and institutions. This paper argues that this trend is not coincidental, but rather reflects a common set of pressures on national politicai economies. The most important such pressure is the increasing global integration of financial markets. International financial integration has driven the industriai countries toward domestic financial deregulation by way of two mechanisms. The first is the dramatic increase in innovative instruments and techniques used in international financial markets, which have served to make it technically difficult to maintain the market segmentation characteristic of previous domestic regulation. The second is the vigorously competitive nature of international banking itself, which penalizes banks with homecountry regulations that run counter to the requirements of international financial competition. International financial integration and competition are forcing a reformulation of national regulatory environments throughout the industriai world, but the contours of this reformulation are a function of the interest-group pressures brought to bear within the politicai systems of the nations involved. Financial institutions and other economie agents whom national regulations constrain fight to reform them, while those protected struggle to maintain existing regulations. In the United States this battle has pitted large internationally oriented banks, on the one hand, against small banks and some small businessmen and farmers, on the other. In Japan, large commercial banks and securities houses each struggle to preserve their protected markets. The American and Japanese experiences show that, while the trend toward deregulation is general, its details and timing differ across countries, often as a result of interest-group politics.

75

The resulting differences in national regulatory structures and practices in turn affect the competitive position of each country's banks in international markets, as well as each nation's economie efficiency and social welfare. Section 2 below presents a framework for the analysis of effects of international financial trends on domestic policy formation. Section 3 applies this framework to the development of American financial regulation over the past thirty years. Section 4 does the same for Japan, and a brief conclusion follows. 2. Analytical Framework: Financial Internationalization and Domestic Regulation

The most salient feature of contemporary financial markets is their increasing global integration. The ease with which funds flow across borders and oceans, coupled with the enormous size and extent of the offshore financial markets, is dissolving many of the boundaries among national financial systems. This financial internationalization has made it increasingly difficult for government authorities to maintain the country-specific market segmentation that has characterized most national financial regulation. When depositors and borrowers have access to global banking services on overseas or offshore markets, national regulators can seldom restrict the services locai financial institutions offer without seriously hampering their ability to compete at home and abroad. The result has been a systematic, world-wide trend toward the de- and re-regulation of national financial systems in ways more suitable to the demands of international financial competition. International financial pressures on national regulations are of two broad kinds: those that directly affect domestic financial practices, and those that affect domestic financial systems indirectly, by forcing national banks involved in international markets to alter their domestic operations. The first set of effects, broadly considered, involves international financial practices, instruments, and innovations that make previous ways of doing business in national markets obsolete1. When, for example, de-

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positors in the offshore markets have access to market-rate financial instruments denominateci in their own currency, domestic caps on interest rates are ineffectual; the same is true of many controls on domestic lending. Depositors and borrowers dissatisfied with the financial services offered at home can, assuming they are large enough to make the additional step worthwhile, take their business elsewhere - often to offshore branches of the same banks that are unable to meet their needs at home due to domestic regulations. As domestic financial institutions lose business to more streamlined, less regulated institutions on the offshore markets, pressure mounts to remove the strictures that are making the domestic financial system unable to match overseas conditions. Another set of international effects on domestic financial regulation arises from the stringent demands placed on banks that wish to participate in international financial markets. Today's global financial system is extremely competitive, and national banks that are active internationally cannot afford to fall behind their competitors. If the domestic regulatory structure affects the costs of national banks' overseas operations — for example, by imposing reserve requirements or disclosure statements, or by restricting the scope of bank operations — the banks will find their international competitive position hampered. This leads to pressure from the banks to remove or reform the domestic regulations that are restricting their ability to win new business on international markets. Before we can investigate whether domestic regulations in the Us and Japan have hampered or aided the international competitiveness of their banks, however, we first need some notion of the performance that we would expect from these banks if their relative competitiveness were not influenced by differences in domestic regulations. The interaction of domestic financial regulation and the international competitiveness of a nation's banks can best be understood in light of the economics and industriai organization of international banking2. The new «strategie trade theory» provides a useful framework for analyzing the pattern of international trade in financial services3. The banking industry is characterized by features analogous to «learning by doing». Espe-

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cially on the lending side, experience generates a stock of knowledge about borrowers (particularly corporations) wich serves to lower transactions costs. In the market for soliciting deposits, experience translates into reputation (wich is important for large depositors, for whom deposit insurance is insufficient). Thus in both borrowing and lending, experienced banks have cost advantages over inexperienced banks. This advantage enables experienced banks to earn rents that will not necessarily be competed away. Not only is the banking industry characterized by this kind of technology, but it is also the case that historically banking regulation in virtually ali industrialized countries has protected the domestic industry from foreign competition. A consequence of this protection has been a tendency for each country's banks to develop expertise vis-a-vis borrowers and depositors based in their home market. Hence the legacy of regulation and protection of the banking industry is that Us bank have experience and reputation that generate a competitive advantage in providing services to Us corporations; German banks, to German corporations; Japanese banks, to Japanese corporations. Table 1 presents evidence indicating that this theory can help us understand international competition in the offshore markets. The table shows that underwriting of Eurobonds denominated in currency i is dominated by banks from country i. In-

Table 1: Eurobond Underwriting by Currency and Nationality of Underwriter, 1 9 8 6

Currency of Denomination

U.S. Dollar Japanese Yen German Mark British Pound French Frane Source: « Euromoney ».

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Share of Bonds Underwritten by Banks from the Country Issuing the Currency

Share of Total Eurobond Market Denominated in This Currency

51.1 91.1 85.8 56.9 94.0

64.1 10.1 9.4 5.9 2.0

ternationaì portfolio diversification notwithstanding, issuers and purchasers of bonds denominated in currency i will mostly be nationals of country i. Thus banks from country i will be the most ef ficient underwriters of such bonds if they have information and reputation advantages vis-a-vis borrowers and lenders from their own country. The data presented here fit the theory quite well. The relationship holds least for the Us dollar: this may reflect the fact that the dollar is the most international currency, so that many borrowers and lenders in the Eurodollar bond market are not American. This theory implies that a nation's banks should have a position in the international financial markets roughly commensurate with the relative size of the national economy. The domestic regulatory environment, however, will influence whether a nation's banks actually live up to this norm. Where domestic regulation favors the creation of very large national banks, they will be relatively more competitive in the international financial system. Where domestic regulation restricts the size of national banks, they will be relatively less effective in competing internationally. In many instances, we would expect national regulations that restricts international financial competitiveness to give rise to bank pressures for a revision of national regulatory systems. Cross-national differences in interest-group politics and politicai institutions can lead to different outcomes in this bargaining over domestic financial regulation4. Different nations have different starting points, different regulatory patterns from which the recent process of deregulation and reregulation began; this leads to variation in the issues under debate. They also have different institutional structures and different constellation of interest groups; this leads to variation in the process and consequences of the politicai debate. The result is significant national variation in the policies eventually adopted and in their distributional impact. The recent Japanese and American experiences are good examples of how different national politicai economies have responded differently to similar international financial pressures. The Japanese politicai and financial systems are both far more cen-

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tralized than their American counterparts. In Japan, only very large banks and non-financial corporations have typically participated in debates over domestic financial regulation, and there are only a few relevant government agencies. In the United States, in contrast, interested parties include big banks and corporations, small banks, small businessmen, and farmers, and there are a myriad of Federai and state authorities involved in the regulatory process. It is not surprising that both the process of debate, and the eventual policy outcomes, have been very different in the two countries. 3. The Politicai Economy of Banking Deregulation in the United States

Table 2 illustrates the position of Us-based banks in international financial markets. The table shows the nationality of the 50 largest banks and 300 largest non-financial corporations in the world, for selected years from 1959 to 1986. The five economies listed, the largest market economies in the post-war

Table 2 : Country Shares of Large Banks, Large Corporations, and GDP for Five Major Industriai Economies, Selected Years

Year France W Germany Japan UK US

Bank Corporation GDP Share Share Share 1959 1969 1979 1986 1959 1969 1979 1986 1959 1969 1979 1986 .06 .06 .12 .10 .40

.06 .08 .20 .08 .28

.08 .16 .28 .08 .12

.10 .10 .42 .08 .10

.04 .06 .02 .10 .69

.05 .05 .08 .09 .63

.06 .09 .12 .09 .47

.05 .08 .17 .08 .43

.08 .08 .05 .10 .69

.09 .10 .11 .07 .63

.11 .15 .19 .08 .47

.09 .11 .24 .07 .50

Definitions: Bank Share: Number of Country i's banks in Fortune's list of the 50 largest banks in the world, divided by 50. Corporation Share: Number of Country i's corporations in Fortune's list of the 300 largest corporations in the world, divided by 300. GDP Share: Country i's share of the five countries' combined GDP (where GDPs have been converted into a common currency using market exchange rates).

80

Table 3: Correlation of Bank Share with Corporation Share and GDP Share for Five Major Industriai Economies (Correlation Coefficients) 1959

1969

1979

1986

1986'

1959-86 Pooled

1959-86 Pooled'

.98 .98

.83 .84

-.05 .09

.02 .14

.95 .99

.55 .60

.79 .90

Correlation, Across Countries of Bank Share with: - Corporation Share - GDP Share a

Omitting the US.

period, are home base for 70-80 percent of the largest banks. These same economies account for 80-90 percent of the largest corporations. There is a generally strong correlation between each country's share of the largest banks, its share of the large corporations, and its share of the five countries' combined GDP, as shown in Table 3. Banks based in the United States are, however, underrepresented by this standard. In 1959 the Us had 69 percent of the combined GDP and 69 percent of the large corporations, but only 40 percent of the large banks. By 1986 the Us stili had 50 percent of combined GDP and 43 percent of the largest corporations, but its share of the largest banks had fallen to 10 percent, essentially oft a par with the much smaller economies of France, Germany, and the United Kingdom. Evidence from other aspects of international banking competition bears out this observation. Eurobond underwriting is an extremely important and profitable segment of the Eurocurrency markets; in 1986 $178 billion worth of bonds were issued in this market. A relatively small number of banks and investment houses dominate Eurobond underwriting: 50 institutions accounted for 93 percent of the market in 1986. Table 4 indicates the share of this market held by banks of different nationality in 1976 and 1986, and demonstrates, once again, that the U.s. share is far smaller than its GDP share would lead one to expect.

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Table 4 : Shares of the Eurobond Underwriting Market, by Nationality of Underwriter, 1976 and 1986

American Japan Swiss-American German French British Swiss Dutch

1986

1976

26.8 22.1 11.2 10.8 8.2 5.2 2.6 0.9

19.8 1.0 a 20.0 11.8 5.4 21.0 6.5

Note: Market share is measured by the dollar value of bonds underwritten. Source: «Euromoney».

The principal reason for the anomalous position of American international banks in the peculiar structure of financial regulation in the United States. To a great extent, American domestic bank regulation has been an obstacle to the ability of American financial institutions to compete on international markets. This competitive disadvantage was relatively insignificant in the early days of the offshore markets, but by the 1970s American international financial institutions were exerting systematic pressure to revise the domestic regulatory environment to reflect their needs. While many of the reforms they proposed have been adopted, the changes are controversial and their transit through the politicai system has been slow and halting. a) American Financial Markets in the 1950s and 1960s. Most modem banking regulation in the United States dates to the 1920s and 1930s. The financial system that emerged from the Great Depression and World War Two was characterized by a strong regional and functional segmentation of financial markets. Commercial and investment banking were separate, as required by the Glass-Steagall Act of 1933. There were stringent restrictions on bank branching across state borders, reflecting both the long-standing tradition of state autonomy and more specific legislation such as the 1927 McFadden Act. Under the

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Banking Act of 1933, members of the Federai Reserve System could not pay interest on demand deposits, and there was a ceiling on interest rates payable on time deposits (Regulation Q). This highly segmented banking structure led to a financial system in which interest rates, financial services, and the profitability of financial institutions varied greatly across geographical and functional borders5. American financial-market segmentation gave an added impulse to the already-strong tendecy for major money-center banks to expand abroad. Banks based in New York City, especially, faced important restrictions on the domestic scope of their operations, and soon outgrew the activities permitted them in the city's five boroughs. The New York banks had previous international experience from the interwar years in any case, and by the 1950s many of their corporate customers were also expanding overseas production and sales. Foreign lending by American banks and foreign bond flotations on Wall Street grew gradually through the late 1950s. By 1961, American banks held $6.1 billion in foreign assets, and in 1962 foreigners issued $1.3 billion in new bonds in New York6. The American capital controls of the early 1960s, however, halted the reopening of Wall Street as an international financial center. Concern about the domestic macroeconomic implications of the capital outflow — in the days in which billion-dollar payments deficits were big news — led the Kennedy and Johnson administrations to restrict foreign lending, first from the bond markets, then from commercial banks. The capital controls of the early 1960s, which lasted until 1974, were a major factor both in the rise of the Euro- or offshore markets generally, and in the overseas expansion of American banks that could establish branches and subsidiaries in London, the Caribbean, and other growing financial centers, ad carry out dollar-based business prohibited in the United States. By the early 1970s, the offshore markets were booming, and American international banks were their leaders. In 1973, 79 American banks had 694 overseas branches with net assets of $109 billion; American banks conducted about half of ali Euromarket business, and the thirty largest Us banks accounted for

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almost 90 percent of this7. In this increasingly internationalized financial environment, American domestic banking regulation was beginning to chafe. b) Pressures for Deregulation in the 197Os and 1980s. In the mid-1970s strains began to emerge in the American domestic regulatory structure, many of them due to the extraordinary increase in international financial-market integration. First, the new technologies that eroded the barriers among national financial markets also tendend to undercut traditional American regional and functional market segmentation. Second, the constraints imposed on the major American international banks by regulations on their domestic operations began to hamper their ability to maintain their international competitive position. Both of these forces combined to put financial deregulation on the politicai agenda. It is sometimes difficult to separate international forces for deregulation from other forces. For example, the inflationary environment of the 1970s certainly helped make demand deposit interest-rate ceilings increasingly untenable — but the ready availability of offshore markets on which banks could pay market rates on dollar-denominated demand deposits certainly underscored the problem and made its resolution far more pressing. By the same token, it is often difficult to distinguish between technological and policy-induced forces that tended to make the regulatory structure obsolete. For example, the financial telecommunications advances of the 1970s and 1980s, especially sophisticated electronic marketplaces (such as for foreign exchange) and extraordinarily efficient international payments systems for electronic funds transfers, have made segmented banking markets harder to sustain. However, it is not clear that these technological changes were themselves entirely exogenous: had Us government policy not driven American international banking offshore, the need for such telecommunications advances might not have been so great. A world in which ali dollar-based international banking took place in New York City would probably not have required the impressive technological developments that grew up to serve the globe-straddling offshore dollar markets.

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In any event, one set of international financial pressures on American banking regulation was general. The availability of attractive financial services for large depositors and borrowers on the offshore dollar markets made it very difficult to maintain existing market segmentation. The very principle of financial-market segmentation was that locai savers would provide the funds to be lent to locai borrowers. However, once savers in farm communities, for example, could buy money market mutuai funds that retailed access to assets in unregulated EuroCDS, Eurodollar deposits, or the CDS of money-center banks with major overseas operations, they abandoned farm banks in droves, and a cheap source of loanable funds dried up for locai banks and thrift institutions. At the same time, potential borrowers that ran up against domestic lending limits could go offshore for their funds — and offshore loans were often cheaper than domestic loans for many large borrowers. Before this process had gone very far, there was widespread agreement that something needed to be done to rework the regulatory environment. The waves of bank and thrift failures of the 1980s simply served to reemphasize the point that financial institutions that had grown up behind geographical or functional protective barriers after World War Two could not survive unaltered in the new global financial environment. Although most could agree that financial regulations needed modification, there was and continues to be-reai disagreement over how regulatory reform should be undertaken. Here interestgroup pressures have been centrai, and the international interests of the major money center banks have come to the fore. The second set of international financial pressures on American banking regulation, in fact, carne from the country's major international banks themselves, for whom domestic regulation had become an important obstacle to their international competitiveness. The country's largest banks had by the mid-1970s increasingly come to feel that Glass-Steagall and McFadden restrictions (on mixing commercial and investment banking, and on interstate banking, respectively) were shutting them out of lucrative domestic business, were artificially restricting the domestic base they needed to compete effectively in international

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banking markets, and were even giving foreign banks a competitive advantage in the Us market. The first concern of the major American international banks was that regulation was keeping them out of domestic business in which their competitors from other countries could engagé in their home markets. The most obvious such restriction was the ban on inter-state bank branching. This severely restricted the potential retail deposit base of the major American banks, and thereby kept them far smaller than they would have been in a truly national banking market, such as prevailed in most of the home countries of other international banks. Banks from New York, Illinois, and California, for example, were given access only to retail deposits from their home states, so that their domestic retail base was in essence only the size of their home state. As long as these states were themeselves larger than virtually ali national economies, this was not much of an obstacle, but as Western Europe and Japan grew, such restrictions on the geographic scope of domestic activities carne to constrain the international position of American international banks. Large banks also carne to regard the stringent separation between commercial and investment banking in the United States as an anachronism unsuited to contemporary international financial competition. After ali, the same commercial banks prohibited from investment banking at home could engage in it on the offshore markets — often to manage securities issues for American customers. Although the two sets of banks disagreed over how to manage the transition, there was general consensus among the large and internationally active financial institutions that GlassSteagall needed major revisions and might even need to be scrapped altogether. Finally, certain peculiarities of the American regulatory structure actually gave foreign banks something of a competitive edge in the Us market. While most American banks could not branch outside their home states, foreign banks had no «home state» and could often engage in interstate banking. Similarly, legislative restrictions kept large American banks from buying banks in other states, while anti-trust considerations prevented them from buying banks in their home states. Foreign banks

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faced few such obstacles, however, and were often virtually the only potential purchasers of major American banks. In fact, during the 1970s foreign bank operations in the United States grew rapidly. During the decade foreigners acquired 96 American banks, and foreign affiliates' share of American banking assets went from just 3.6 percent in 1972 to 15.3 percent in 1982. Almost half ot these assets were held by Japanese banks8. The consensus that developed among major money-center banks thus favored a radicai reform of the American regulatory system. The position of Thomas F. Huertas of Citicorp reflects the broader views of the big American international banks: Vast changes are occurring in financial markets, and a new finance is emerging... This new finance is global in scope. It is predominantly based on securities rather than loans or deposits. And it tends to integrate financial services with each other and/or with nonfinancial services tailored to meet customer preferences. In contrast, financial regulation in the United States forces financial institutions to segment financial services rather than integrate them.

Huertas concludes with a cali to «eliminate barriers to affiliation contained in the Glass-Steagall Act, the Bank Holding Company Act anch state antiaffiliation laws», and argues, «banks should be able to affiliate with any other type of firm, including a commercial firm»9. Even E. Geral Corrigan, President of the Federai Reserve Bank of New York and only a cautious supporter of deregulation, has stressed that «Given the realities of global financial markets, the structure we choose to adopt here must at least be sensitive to arrangements elsewhere. In that regard it should be stressed that... the United States and Japan are the only remaining major countries that do not permit rather generalized blending of banking and other financial enterprises within the same corporate entity» 10. While the major American financial institutions involved in international banking strongly favor regulatory reforms that would enhance their international competitive position, other economie actors are far less enthusiastic11. Within the financial community, many banks and thrift institutions feel they would be

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unable to survive without protective regulation. Some smaller institutions welcome deregulation, since they anticipate lucrative absorption into larger enterprises, but most look with apprehension on the prospect of a truly integrated national financial system. Borrowers or potential borrowers who feel that financialmarket segmentation works to their advantage have also supported continuation of existing arrangements in one form or another. These often include small businessmen and farmers, for whom legally mandated locai and functionl specialization by financial institutions may increase the supply of funds12. Opposition to fully integrated national banking has generally been strongest in states or regions in which banks are small, small business is significant, and/or agriculture is important. These cross-cutting interest-group pressures have made the trajectory of proposals for financial deregulation in the United States halting at best. As might be expected, legislative action has been particularly problematic, since the Congress (and state legislatures) is so exposed to public pressure. Nonetheless, a few bills have worked their way through the legislative branch. In many instances, judicial rulings, and administrative decisions by the regulators themselves, have foreshadowed or even pre-empted legislative changes. The first major salvo in the assault on existing regulations carne with the 1978 International Banking Act, which essentially leveled the playing field between domestic and foreign banks in the Us market. This was followed by the Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act of 1980, which removed most interest-rate ceilings and also reduced the barriers between commercial banks and thrift institutions. The Garn-St. Germain Depository Institutions Act of 1982 continued this path, authorized several new financial Instruments, and also permitted inter-state bank acquisitions where the acquired bank or thrift was in financial difficulties13. Since then, despite a legislative agenda cluttered with new regulatory proposals, Congress has done almost nothing to move ahead with regulatory reform, agreeing at most to freeze new initiatives pending a more farreaching review of the questions involved. The myriad of interestgroup pressures has largely prevented any major legislative pro-

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grani from being brought to the floor of the Congress. Regulators and the courts, however, have pushed ahead14. In December 1981, after nearly ten years of lobbying by the major American inernational banks, the Federai Reserve and state authorities permitted banks to set up International Banking Facilities, which can conduct offshore financial operations from within the United States. This essentially allowed American banks (and Us agencies of foreign banks) to conduct «Euromarket» business on American soil. Barriers to inter-state banking have also begun to crumble, due in large part to the various states' attempts to secure the position of their own banks. New York, home of the country's biggest financial institutions, resolved to allow out-of-state banks to establish branches and acquire banks in New York so long as the home state allowed reciprocai privileges to New York banks — which few were willing to do. California enacted similar legislation, although it provided a grace period (ending January 1, 1991) in which inter-state banking was extended only to other Western states, to allow locai banks to prepare for an expected onslaught from New York banks. Some states, such as Texas, with many troubled financial institutions, have permitted inter-state acquisitions in an attempt to strengthen their banking systems. Other states have reacted to this trend by forming regional compacts that allow for inter-state banking only with neighboring states — often explicitly excluding the New York powerhouses. At this point, the traditional geographical limitations so characteristic of the American banking market are rapidly fading. The country now approximates a collection of regional markets, with a few states willing to allow full inter-state privileges. These state initiatives have held up to legai challenges, and the pace of inter-state acquisitions has grown dramatically due both to the regulatory changes and to the large number of fading banks and thrifts that have been on the block in recent years. Similar non-legislative changes have moved the financial system toward some form of integration of commercial and investment banking. The Office of the Comptroller of the Currency and the Federai Reserve Board have allowed commercial banks

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to underwrite securities, and the courts have upheld these decisions. Meanwhile, the New York state authorities have reinterpreted the state's own version of Glass-Steagall to allow state chartered commercial banks to engage in investment banking, which led Citibank's upstate affiliate to request conversion from a national to a state charter, the first such request by a major bank in ten years. Other states have also moved toward more integrated financial services industries15. Congress, much more subject to pressures from small banks and securities firms that fear the impact of increased competition, has fought to slow the pace of regulatory change, even mandating a one-year moratorium on administrative action that would allow for new commercial-bank incursions into investment banking. Nonetheless, the handwriting is on the wall for the separation of commercial and investment banking. A combination of economie pressures and lobbying have pushed the federai and state governments in the direction of reform of financial regulation in line with the requirements of international banking competition. This direction is most strongly desired, and most strenuously fought for, by the big moneycenter banks that are active in international financial market. However, as the checkered Congressional response to reform proposals indicates, there are other interests at stake, and many of them are strong and concerned enough to affect the bargaining outcome as the United States moves toward a new regulatory structure.

4. The Politicai Economy of Banking Deregulation in Japan

As in the Us, financial markets in Japan have been heavily regulated in the post-war period. Some aspects of banking regulation are similar to regulation in the Us, which is not surprising given that much of the regulatory structure was put in place during the Us occupation. Artide 65 of the Securities and Exchange Law, for instance, is the Japanese equivalent of the Glass-Steagall Act, forcing separation of the banking and securities industries. There are also similarities in the way in which

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financial deregulation in the Us and Japan has been necessitated by developments in international markets. According to E. Gerald Corrigan, President of the Federai Reserve Bank of New York, Japan faces many of the same problems in the financial area that we are so conscious of here in the United States. Namely, much of its overall banking and financial structure - as wel! as the regulatory and supervisory apparatus associated with that structures - were not designed for the current international market environment16.

Nevertheless, there are important differences between the Us and Japan, both in initial domestic banking regulation and in the politicai process of deregulation. In particular, Japanese regulation led to the development of a highly concentrated financial market with a small number of very large firms. These large financial institutions have been the key voice from the private sector influencing deregulation of domestic banking. Their dose cooperation with the Ministry of Finance has resulted in a relatively smooth process of deregulation, and this is no doubt one reason why the Japanese institutions have emerged as dominant competitors in the international markets. a) Japanese Financial Markets in the 1950s and 1960s". Banking regulation in Japan has created several distinct markets for bank deposits and loans; segmentation of these markets has persisted up to the present. Japan's 12 «City Banks», large commercial banks based in Tokyo, Osaka, or Nagoya, dominate the market for short-term deposits and loans. Several of the City Banks are closely allied with large industriai groups, and ali of them are major corporate stockholders. Interestingly, the City Banks have no legai status different from that of the smaller commercial banks in Japan, though they are treated differently in the administrative guidance that plays such an important role in Japanese regulation of the banking industry. Regulation restricts the commercial banks to short-term markets, preventing them from taking time deposits of more than three years duration or issuing debentures or CDS. Competition between the City Banks and the smaller commercial banks has been restrained

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by limiting the number of branches that the City Banks could open. Japan's Trust Banks and Long-Term Credit Banks provide medium and long-term lending. Both types of institution issue medium-term debentures, a market from which commercial banks continue to be excluded. During the 1950s and 1960s these banks concentrated on providing long-term capital to industry; Trust Banks until 1971 were restricted to lending to certain heavy industries targeted for development. Long-term bank financing was very important for industriai development because Japanese corporations made relatively little use of direct financing. Underwriting of corporate stocks and bonds has been a monopoly of the securities industry, dominated by the «Big Four» houses. Banks have been allowed only to underwrite government bonds; big banks, in fact, have been required to absorb a certain fraction of government debt issues, often earning unattractive interest rates. Banks, however, have not been allowed to reseli these bonds directly to their customers. Also tightly controlied has been the access of ali financial institutions to the international capital markets. The Bank of Tokyo for a long time had a near monopoly of foreign exchange trading, so that it was the only Japanese bank in the 1950s and 1960s to develop a truly international network of branches. As Japan's international trade grew and other large banks desired to expand internationally, the Ministry of Finance maintained a discriminatory policy of allowing «Class A» banks (City and Long-Term Credit Banks) to slowly develop international branch networks, while severely restricting the international activity of «Class B» banks (Trust Banks and small commercial banks). The net effect of these regulations was to create uncompetitive and segmented financial markets, well insulated from international capital markets. Deposit rates were kept low throughout the 1950s and 1960s, apparently below the level that would have prevailed in a competitive market, as evidenced by the much-discussed «excess demand for credit» in this period. Formai and informai regulations, in this environment of creditrationing, ensured that loans primarily went to industriai deve-

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lopment. On the lending side, both the short-term and longterm prime rates were set by open cartels, with the participation of the Ministry of Finance. The prime rates were often low, compared to interest rates in other countries, conveying the impression that the regulatory structure succeeded in chanelling low-cost capital to industry. However, the prime rate is a very misleading indicator of the cost of funds to industry: borrowers were typically required to maintain some share of the borrowed funds on deposit at low or no interest. These «compensating balances» could be as much as 70 percent of the loan. Hence the actual rate of interest paid for funds could be much higher than indicated by the prime. The regulatory structure also made it difficult for industriai firms to shift to direct financing. Collateral requirements for the issuing of bonds limited the number of corporations that could turn to this market, and made bond-financing expensive18. Rigidly fixed brokerage fees for shares traded on the Tokyo Stock Exchange also made large share transactions considerably more expensive in Japan than in other developed countries. This no doubt slowed the development of a deep secondary market for stocks, a necessary institution if corporations are to make extensive use of share-issues to finance new investment. It is never simple to analyze who wins and who loses from a complex regulatory scheme, but regulation almost certainly worked against household depositors. Deposit rates averaged 4 percent in the 1960s; with average annual inflation of 5.4 percent, real returns were negative19. On the other hand, strong regulation resulted in low risk for small investors, and probably contributed as well to monetary and price stability. It is much more difficult to ascertain whether industriai corporations as a group benefited from this system, as is often alleged; funds were lent at a nominally low rate, but, as noted above, banks extracted serious side payments. Furthermore, the regulatory structure as a whole probably slowed the transition from indirect to direct financing. One thing does seem clear, however: any benefits received by industriai corporations from this regulated financial system diminished rapidly as Japanese industriali-

93

zation proceeded. As industriai corporations grew and Japan moved from being a capital-poor to a capital-rich country, corporations stood to benefit by less restricted access to the large pool of savings provided by households. What also emerges clearly is that the complex web of regulations benefited the large financial institutions. Market segmentation greatly restricted competition between different types of institutions (City Banks, Trust Banks, Long-Term Credit Banks, and Securities Houses), and the small number of large firms within each market made it relatively easy to maintain a formai or informai cartel. The Ministry of Finance restricted new entry into ali of these markets. The MOF also obviously provided some check on the rates and fees charged by these firms; nevertheless, they were extremely profitable. In summary, Japanese banking regulation in the post-war period maintained segmented and controlied financial markets, probably at the expense of savers and perhaps at the expense of corporate borrowers as well. It has also resulted in 25 or so Japanese financial institutions growing into extremely large and politically powerful organizations. The City Banks, for instance, have consistently been the largest (legai) contributor to the ruling Liberal Democratic Party. b) Pressures for Deregulation in the 1970s and 1980s. During the 1970s and 1980s economie and politicai forces have led to substantial deregulation of Japanese financial markets. As in the case of the Us, developments in international capital markets, combined with increased integration of international and domestic markets, have been prime movers of deregulation. That the heavily regulated financial system in Japan was no longer a net benefit for large corporations by the early 1970s is indicated by the fact that those corporations began to turn increasingly to the offshore markets. For large corporations, ease of borrowing in these markets translated into lower costs for funds. The absence of collateral requirements also made the floating of bonds relatively easy in the Euromarkets, though MOF initially restricted this privilege to a few large corporations. On the lending side, Japanese banks were slow to get invol-

94

ved in the Euromarkets. Through the 1960s, each individuai Euromarket loan in which a Japanese bank participated had to be approved by the MOF, a cumbersome procedure that reduced the attractiveness of lending in the Euromarkets. Even when this procedure was dropped for Class A banks in 1970, however, only the Bank of Tokyo with its existing network of international branches made a major move into the market. The City Banks seemed content to let their corporate clients take some of their business to the international markets without following after it. No doubt dose ties between City Banks and large corporations acted as a check on the amount of Euromarket borrowing by those corporations. As noted in the previous section, large American banks quickly responded to opportunities to expand into unregulated international markets, suggesting that domestic regulation was increasing their costs and limiting their profitability. That Japanese banks did not respond similarly when first offered opportunities to expand into the Euromarkets supports the argument made earlier that banking regulation in Japan increased the industry's profitability and was not, as in the Us, a burden to be circumvented if possible. Economie developments in the mid-1970s greatly upset the status quo in Japanese financial markets. The first oil shock signaled the end of rapid industriai growth in Japan, and demand for investment funds by large manufacturing corporations, the primary borrowers from ali the large Japanese-banks, went into a secular decline. For the first time in the post-war period a large gap between Japanese savings and investment opened up. At the same time, Japanese government budget deficits ballooned, financed in large part by debt issues. Banks were required to absorb a large share of these issues, and for several years in the late 1970s this was the main form of new lending by the City Banks. These economie developments had important ramifications for capital markets, international and domestic. The Eurocurrency markets experienced tremendous growth, fueled by the recycling of Petrodollars. An important development in Japanese markets was that the stock of outstanding government bonds increased rapidly. This quickly deepened the gensaki market, in which long-term

95

bonds are sold with repurchase agreements. The repurchase agreements give these bonds the character of short-term instruments, making this the only unregulated short-term money market in Japan. In the late 1970s the minimum trading amount was Y100 million, which obviously excluded small investors. Nevertheless, growing numbers of Japanese corporations were of sufficient size to make use of this short-term money market. Thus by 1980 large Japanese corporations had easy access to both the Eurocurrency markets and the gensaki market, and could even arbitrage between them. (The covered interest arbitrage condition between the Eurodollar rate and the gensaki rate holds almost perfectly from the late 1970s on.) These developments reduced the corporations' needs for the services of the City Banks, and also provided an important link between the international capital market and Japanese financial markets. The rapidity of this development is indicated by the fact that the share of corporate short-term deposits in instruments with market-determined interest rates increased from 10 percent in 1978 to 63 percent in 198520. In the early 1980s the government budget deficits were brought under control and declined as a share of GDP, relieving the banks of their large funding obligations in this area. Ali of the banks, however, found that their traditional clients, industriai corporations, now had drastically reduced needs for bank funds, owing to slower industriai growth combined with new sources of funds (more direct financing plus access to the Euromarkets). It was at this point that the large Japanese banks made a rapid push into the international financial markets, partly to follow their traditional clients and partly to seek out new business. The large excess of savings over investment, of which only a small amount is now required to fund government deficits, provides a large pool of funds to be lent overseas. We also see growing support for domestic deregulation from financial institutions concerned with the loss of business to the offshore markets. For instance, banks pushed MOF to deregulate deposit rates, especially for large deposits, in an effort to win back some of the deposits in the offshore markets. In this new environment, each type of financial institution

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has been lobbying the MOF for expanded freedom abroad, while at the same time trying to influence the shape of domestic deregulation. A good example of this institutional infighting is the «Three Bureaus Agreement». With Japanese corporations turning increasingly to bond financing in the Euromarkets, the City Banks argued that they should be allowed to underwrite Euroyen bond issues. The securities houses, which have a monopoly on underwriting in Japan, naturally wanted to preserve this monopoly internationally. The compromise reached in the «Three Bureaus Agreement» in 1974 was to allow City Banks to underwrite Euroyen bond, but only in concert with the securities houses. The agreement proved unwieldly, however, and by 1980 MOF was' permitting banks to underwrite bond issues on their own. Securities houses fought back in two ways. First, they applied, for commercial banking licenses in the London market. Second, they lobbied MOF to ease collateral requirements for bond issues in Japan, hoping to bring underwriting business back to Tokyo from the international markets. The latter is another example of international developments forcing domestic deregulation. In a typically Japanese compromise, MOF agreed to ease collateral restrictions, but left it to the City Banks to set the requirements determining which corporations could float bonds without collateral in the Tokyo market. Naturally, the banks set such stringent requirements that few corporations could take advantage of the liberalized policy. Ironically, it was mostly Us corporations that met the requirements, and Sears Roebuck was the first private corporation to issue unsecured yen bonds in the Tokyo market. Japanese corporations in 1984 floated more than one-half of their bond issues in the Eurobond market, indicating that Japanese commercial banks can now compete for a large share of the business of underwriting Japanese corporate issues21. Thus we find that Japanese financial institutions did not make a major entry into the international banking markets until the 1980s, when it was no longer possible to maintain their insulated and profitable financial system. Once committed to the Euromarkets, however, their growth has been breathtaking.

97

By 1986, 21 of the 50 largest banks in the world were Japanese, while only five were American. In the Eurobond underwriting market, the market share of Japanese institutions increased from 1 percent in 1976 to 22 percent in 1986, only slightly behind the Us banks (see Tables 2 and 4). This spectacular growth to some extent reflects the competitive advantages that Japanese financial institutions have vis-a-vis Japanese borrowers and lenders. As noted, the latter groups turned to the international markets before the banks, but now that Japanese banks have followed them there, the banks have an advantage in servicing those Japanese clients. It seems, though, that the position of Japanese institutions in the international financial markets is stronger than can be justified by Japan's position as the world's second largest market economy. If so, this may be explained by features of the Japanese regulatory scheme that have provided Japanese banks with competitive acjvantages, especially relative to Us banks. Japanese banking regulation, unlike American, did not have the effect of limiting the size of large banks; rather it encouraged the development of about 25 huge financial institutions and made any new entry into this élite group virtually impossible. As a result Japan today has a total of about 200 banks, compared to well over 10,000 in the United States. One indication of the difference in the regulatory environments in the United States and Japan is the performance of banks from the two countries in the other country's market. The regulatory pattern in the Us makes it easy for Japanese banks to move into retail banking in the Us through acquisition, since there are many small and medium-sized banks potentially available. There are many fewer opportunities for Us banks to move into retail banking in Japan via acquisition, since there are few banks in Japan smaller than the large Us banks. As a result, Japanese institutions now provide about 10 percent of ali commercial and industriai loans in the Us, primarily through Us banks that they have acquired. American banks, on the other hand, have made no inroads into the retail market in Japan22. A final important aspect of financial market deregulation in

98

Japan is that in the early 1980s the Us government brought strong pressure on the Japanese government to liberalize its financial markets23. Us efforts to pressure Japan on other issues, such as defense spending or protection of agricultural markets, have met with very limited success, earning the Japanese government a reputation for promising much and producing little. Financial market deregulation, however, is the one area in which the Japanese government has moved swiftly to implement many of the policy changes urged by the Us. The reason for this unusually cooperative response on the part of Japan is simply that by the early 1980s the large Japanese banks were no longer benefiting from the regulatory scheme, but rather were losing more and more business to the offshore markets. The period of Us politicai pressure coincided with a period in which there was intense market pressure on Japanese institutions to deregulate and internationalize. This fortuitous concurrence of interests for once enabled the Japanese government to satisfy Us demands for market liberalization. It is ironie, however, that one of the motivations for Us pressure on Japan to deregulate financial markets was the notion that Us institutions had comparative advantage in the provision of financial services and could make inroads into the Japanese market, improving the Us trade situation. While Us institutions have had some success in specialized market segments, the inroads have largely been in the other direction, with Japanese financial institutions taking over a major share of the Us market, often through acquisition.

5. Conclusions and Implications

In both the Us and Japan, international financial integration has provided a powerful impetus for deregulation of domestic financial markets. As a result, in these and other industriai countries there is a clear tendency for financial markets and institutions to become more similar. Politicai pressure from special interest groups can stili exert considerable influence over the pace and details of deregulation, however, so that important

99

differences in financial markets, remain across countries. In the Us, small locai regional banks have slowed the inevitabile repeal of prohibitions on interstate banking, restricting the deposit-taking base of the large Us banks based in New York and California. This delay has probably put the internationally oriented Us banks at a competitive disadvantage vis-avis banks from other industriai countries and helps explain the fact that today Us banks do not hold a position in international banking markets commensurate with Us economie size. While Us banking regulation spawned a proliferation- of small banks, Japanese regulation has encouraged the development of a financial industry dominated by few huge institutions. (There are small, protected banks in Japan as well, just not nearly as many as in the Us) The City Banks and «Big Four» securities houses, in particular, have developed into extremely large, politically powerful firms, and their politicai interests — often articulated or mediated by the Ministry of Finance — have in many ways shaped the process of deregulation in Japan. The large banks and securities houses initially resisted deregulation, since the regulatory structure served them well; but as large Japanese borrowers and lenders turned to the Euromarkets for lower cost services, the large financial institutions were forced to accept some deregulation and increased competition in order to win back these customers. The experience of financial deregulation in the two countries clearly illustrates the higlhy centralized nature of the Japanese politicai system and the higlhy decentralized nature of the American politicai system. When deregulation of domestic markets became advantageous for Japanese commercial banks and securities houses, it was implemented quickly and in a fairly coherent manner. The deregulation process in the Us, on the other hand, has been more piece-meal and contentious. We must remember, however, that Japanese-style centralization has its social costs as well as its economie benefits. The Us politicai process significantly represents a wider.group of interests; one of the reasons that deregulation has been relatively smooth in Japan is that politicai input has come almost exclusively from large financial institutions and non-financial corporations. Hence

100

the needs of large banks and corporations in the current international environment have been met, while the needs of other groups, such as small savers' desire for a greater range of financial services, have not been dealt with as quickly and efficiently as regulation has been reformed. Notes O n recent financial innovations, see BANK FOR INTERNATIONAL SETTLEMENTS, Recent In-

1

novations in International Banking, Bank for International Settlements, Basel 1986.

For analyses of international banking competition and the development of the

2

offshore markets see DWIGHTB. CRANE and SAMUEL L. HAYES III, The Changing Struc-

ture of International Banking, Working Paper, Harvard Business School, 1981; IAN H. GIDDY, The Theory

and Industriai

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of International

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1986. For an excellent survey of national processes in four countries, see Louis W.

4

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1 9 7 5 , pp.

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ves, Committee on Banking, Currency, and Housing, Financial Institutions and the

101

Nation's Economy, GPO, W a s h i n g t o n 1 9 7 6 , pp. 7 3 3 - 8 0 0 ; LINDA R. BROWER, A Proposed Legislative Response to Foreign Bank Penetration of Us Banking Markets, «New

York University Journal of International Law and Politics», 14, N. 3, Spring 1982, pp. 6 4 3 - 7 0 0 ; and DENNIS'J. LEHR and CAMERON F. MACRAE III, Foreign Banks in the United States, in Conference on the Internationalization of the Capital Markets,

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December 1987, p. 30. 1 1 F o r representative surveys, see DONALDC. WAITE III, Deregulation and the Banking Industry, «Bankers Magazine», 1 6 5 , N. 1, January-February 1 9 8 2 ; and CHARLES R. HAYWOOD, Trade Groups Choose Sides, «Federai Reserve Bank of A t l a n t a

Economie Review», May 1983, pp. 66-69. 1 2 For t w o representative studies, see PETER L. STRUCK and LEWIS MANDELL, The Effect of Bank Deregulation on Small Business: A Note, «Journal of Finance», 3 8 , N. 3, J u n e 1 9 8 3 , pp. 1 0 2 5 - 1 0 3 1 ; and DAVID LINS and PETER BARRY, Availahility of Financial Capital as a Factor of Structural Change in the Us Farm Production Sec-

tor, in Us Senate, Committee on Agriculture, Nutrition, and Forestry, Farm Structure, Us Government Printing Office, Washington 1980, pp. 74-100. 13

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Way for

Congress?,

«Challenge», 3 0 , N. 5, November-

December 1987, pp. 36-43. 16

E. GERALD CORRIGAN, A Perspective

on Glohalization

of Financial Markets

and In-

stitutions, «Federai Reserve Bank of New York Quarterly Review», 12, N. 1, Spring 1987, p. 9. 1 7 Details of Japanese financial regulation can be found in STEPHEN BRONTE, Japanese Finance: Markets and Institutions, Euromoney Publications, London, 1982. 1 8 For details on regulation of the bond market, see FRANCES M. ROSENBLUTH, The

Politicai

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of Intematìonalizing

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System:

The Case of

the Bond Market, Working Paper, Columbia University, 1987. 19PAULY,

op. cit.,

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in Japan,

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20

ging International Context,

Stanford University Press, Stanford 1988.

ROSENBLUTH, op. cit., p. 2 1 . 22HOUPT, op. cit., pp. 2 5 - 2 9 .

21

23

The US government pressure and its goals are described in WILLIAM H. BROWN,

Opening Japanese Financial Markets: What Has Changed, What Will Change? in THOMAS A . PUGEL (ed.), Fragile Interdipendence: Economie Issues in Us-Japanese Trade and Investment, D . C . HEATH, Lexington, Mass. 1 9 8 6 .

102

(GLASS-STEAGALL ACT», LE BANCHE E I GRUPPI POLIFUNZIONALI

Giannandrea

Falchi

1. Introduzione

Scopo di questo lavoro è quello di fornire un'analisi del GlassSteagall Act — la legislazione che regola, negli Stati Uniti, la separazione fra le banche commerciali e quelle d'investimento mobiliare — ed esaminare le conseguenze di una sua eventuale modifica o abolizione. In primo luogo vengono ricordati i mutamenti e le innovazioni introdotti nel mercato finanziario americano nell'ultimo decennio. Questi mutamenti hanno progressivamente sfumato le tradizionali distinzioni fra le diverse istituzioni finanziarie e fra gli intermediari creditizi e i mercati dei titoli; essi hanno messo in luce l'esigenza di una riforma della struttura legale e di vigilanza. In particolare, il Financial Modemìzation Act, che prevede una sostanziale riforma del Glass-Steagall Act, ha formato oggetto di esame da parte del Congresso nel corso del 19881. Successivamente saranno svolte brevi considerazioni sulle principali caratteristiche del Financial Modemization Act e sulle possibili implicazioni della sua applicazione per il sistema finanziario statunitense. Si procederà, infine, all'analisi delle conseguenze della liberalizzazione del mercato dei servizi finanziari sulla struttura normativa e di vigilanza. 2. Il «Glass-Steagall Act» nel contesto di un sistema finanziario in rapida evoluzione

Con il Glass-Steagall Act si intende convenzionalmente il Banking Act del 1933, uno dei principali atti legislativi approvati dall'amministrazione Roosevelt per fronteggiare il progressivo deterioramento dell'economia statunitense che aveva avuto inizio con il crollo del mercato azionario nell'ottobre del 1929. Nell'ambito di un insieme di misure volte a rafforzare la struttura finanziaria e ad accrescere il ruolo della Federai Reserve2, questo provvedimento introduceva una netta separazione tra le banche commerciali e quelle d'investimento. Scopo del GlassSteagall Act era cioè quello di porre gli investitori al riparo dalle

105

incertezze del mercato azionario e dai conflitti d'interesse che in passato avevano scosso le banche. Questa legge fu quindi concepita come risposta alla situazione prevalente nel settore bancario americano nei primi anni Trenta. Vale la pena di notare, al riguardo, che i difetti della struttura finanziaria esistenti al momento dell'introduzione del GlassSteagall Act sono stati successivamente corretti con la creazione, nel 1934, della Securities and Exchange Commission (SEC) e con il rafforzamento della Riserva federale. Queste misure hanno probabilmente ridotto la necessità di mantere oggi i divieti previsti all'inizio degli anni Trenta. Da allora il sistema finanziario americano ha inoltre subito profondi mutamenti. Attualmente, parte delle incongruenze del Glass-Steagall Act derivano proprio dalla difficoltà di applicare una legge che risale a oltre cinquanta anni fa e una realtà finanziaria completamente diversa. Negli ultimi dieci anni si è assistito alla proliferazione di nuovi strumenti, mentre i servizi finanziari sono stati offerti da una gamma sempre più ampia di istituzioni, in particolare da quelle che operano in titoli3. I prenditori di fondi e gli investitori si sono quindi rivolti in misura minore ai servizi bancari «tradizionali» e hanno cercato nuove fonti di finanziamento e occasioni d'investimento in altri segmenti del mercato finanziario. Ad esempio, le principali società statunitensi hanno trovato nel mercato della carta commerciale e in quello obbligazionario validi sostituti al finanziamento bancario, mentre gli investimenti offerti dalle società assicurative e da quelle operanti nel settore dei titoli hanno avuto rendimenti maggiori di quelli garantiti dai tradizionali depositi bancari. La globalizzazione dei mercati ha posto le banche americane di fronte alla crescente concorrenza di altri intermediari finanziari con la conseguenza che in alcuni settori la loro attività è divenuta relativamente meno importante4. Questa tendenza ha ricevuto un forte impulso dal notevole sviluppo tecnologico nel campo dell'informatica e delle telecomunicazioni. Questi progressi hanno eliminato le barriere di tempo e di spazio fra i diversi mercati, in modo tale che tutti gli operatori dei principali centri finanziari dispongono delle stesse infor-

106

mazioni simultaneamente e possono immediatamente spostare i loro investimenti tra i vari strumenti di mercato monetario, azioni e obbligazioni, sia sul mercato interno sia su quello estero. Il tradizionale vantaggio comparato delle banche nell' acquisire e valutare le informazioni relative ai rischi di credito è stato eroso dalla notevole diminuzione del costo delle tecnologie telematiche e informatiche. Questa diminuzione (valutata in circa il 60% fra il 1972 e il 1987) ha ridotto i costi di acquisizione e di valutazione delle informazioni per gli intermediari non finanziari e ha facilitato l'accesso ai mercati dei titoli. L'acuirsi della concorrenza ha inoltre determinato una riduzione dei profitti delle banche commerciali negli Stati Uniti. Negli ultimi anni queste ultime hanno energicamente combattutto contro le barriere poste dal Glass-Steagall Act che impediscono loro di fronteggiare la crescente concorrenza del settore non bancario e di soddisfare le esigenze finanziarie dei loro clienti. Quanti hanno contrastato l'azione delle banche lo hanno fatto ribadendone la peculiarità come istituzioni finanziarie, le cui responsabilità fiduciarie per quanto concerne i depositi e la creazione di moneta non consentono attività rischiose quali quelle connesse con la sottoscrizione e l'attività in titoli di società. E proprio la particolare posizione delle banche nel sistema finanziario che giustifica la possibilità di far ricorso a privilegi governativi quali l'assicurazione federale sui depositi e l'accesso alle facilitazioni di sconto della Riserva federale. Inoltre, tra la fine degli anni Venti e l'inizio del decennio successivo, allorché alle banche era consentito di sottoscrivere titoli di società, si registrarono numerosi comportamenti illeciti, il più rilevante dei quali fu il dumping di emissioni invendute che le banche avevano sottoscritto nei fondi comuni di investimento da esse gestiti. Quanti continuano ad opporsi a una riforma del GlassSteagall ritengono che questi conflitti di interesse potrebbero verificarsi anche oggi qualora alle banche fosse consentito nuovamente di sottoscrivere titoli delle società. In ogni caso, è opportuno rilevare che le barriere del GlassSteagall non sono più insormontabili come una volta. In particolare, il processo di deregolamentazione è proseguito, nonostante i ritardi legislativi da parte del Congresso, attraverso le decisio-

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ni prese dai diversi organi di vigilanza e le interpretazioni date al Glass-Steagall nei tribunali5. Infatti, dal 1984, allorché fu approvata l'acquisizione del discount broker Charles Schwab da parte della Bank of America, i mutamenti si sono succeduti a ritmo sempre più sostenuto. Attualmente, negli Stati Uniti le banche commerciali possono sottoscrivere e trattare la carta commerciale, le obbligazioni emesse dalle amministrazioni municipali e i titoli garantiti da ipoteche e da crediti al consumo6. 3. Il «Financial Modernization Act»

Il Financial Modernization Act, presentato nel novembre del 1987 dai Senatori Proxmire e Garn, prevede che le banche commerciali siano affiliate, attraverso una holding bancaria, a istituzioni specializzate in operazioni sul mercato mobiliare. Le banche, tuttavia, non potrebbero effettuare prestiti alla affiliata che opera in titoli, né finanziare l'acquisto di titoli sottoscritti dalla medesima. La struttura che appare delinearsi è quindi quella del gruppo polifunzionale che svolge attività diverse attraverso sezioni autonome dotate di capitale distinto e in cui le reciproche transazioni sono regolate da rigide limitazioni. Questo approccio si basa essenzialmente sul ricorso alla holding company bancaria che permette l'affiliazione di imprese bancarie e non bancarie con i vantaggi della diversificazione e delle economie di scopo, pur ponendo le banche al riparo dal rischio connesso con le operazioni in titoli. Riconoscendo la peculiarità di alcune funzioni bancarie, il punto focale della proposta è quindi il tentativo di isolare le banche da eventuali perdite cui potrebbero incorrere le affiliate e ridurre i potenziali conflitti d'interesse derivanti dall'affiliazione di una banca con una società operante in titoli. La proposta cerca anche di ridurre il rischio che la rete di protezione federale — assicurazione sui depositi e accesso alle facilitazioni di sconto presso la Riserva federale — possa essere estesa anche alle società specializzate in operazioni mobiliari affiliate con le banche.

108

4. Prospettive per il sistema finanziario statunitense

Una riforma del Glass-Steagall Act avrebbe implicazioni rilevanti per il sistema finanziario statunitense. Consentendo alle banche di svolgere ogni tipo di attività di titoli, si permetterebbe loro di diversificare il proprio portafoglio, sviluppare nuove fonti di reddito, più redditizie e differenziate, e adattarsi alle diverse esigenze del mercato dei servizi finanziari. Negli ultimi anni negli Stati Uniti la redditività delle società di investimento in titoli è stata relativamente elevata in confronto a quella di altre istituzioni fornitrici di servizi finanziari. Nel periodo 1978-1987, queste società hanno infatti avuto un rendimento del capitale proprio pari al 15,5%, mentre quello delle dieci maggiori banche di investimento ha superato il 20. Dal canto loro le banche commerciali hanno presentato un rendimento pari all'11% (Tavola 1). Il maggiore rendimento regiTavola 1 : Stati Uniti • Rendimento del capitale proprio nell'industria finanziaria, 1978-1987 (valori percentuali)

Banche commerciali Società di investimento mobiliare Dieci maggiori banche di investimento Società di credito ipotecario Istituti di assicurazione specializzati nel ramo vita

1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987

Media Deviaz. nel standard periodo

12.9 13.9 13.7 13.1 12.1 11.5 10.6 11.1 10.0

2.1

11.1

3.4

2.9

15.5

6.9

8.3 21.5 31.1 29.9 28.3 23.9 16.6 20.8 18.5

5.6 20.4

8.6

10.9 14.9 10.6 10.0 19.1 22.5 14.2 11.4 13.9

14.2

4.2

16.6 16.9 15.9 13.3 12.4 11.4 14.2 13.7 12.1

14.0

2.0

-

11.2 16.5 26.2 19.2 20.9 19.9

7.1 15.9 15.4

Fonti: Federai Deposit Insurance Corporation; Securities Industry Association; Mortgage Bankers' Association; American Council of Life Insurance, Life Insurance Fact Book.

109

strato nel settore dei titoli ha compensato in una certa misura l'elevato grado di volatilità dei guadagni derivanti da queste attività (cfr. l'ultima colonna della tavola). I risultati empirici mostrano d'altra parte che i profitti derivanti dalle attività delle banche commerciali risultanti negativamente correlati con quelli delle società di investimento mobiliare cossicché le banche potrebbero frazionare il rischio operando in'titoli, pur se i profitti derivanti da questa attività si rivelano più variabili. Questi risultati mostrano altresì che il rischio complessivo di un ipotetico gruppo derivante dall'affiliazione di una banca commerciale con una società operante in valori mobiliari non risulta necessariamente superiore a quello esistente per la sola banca7. La riforma del Glass-Steagall Act, inoltre, aumenterebbe la competitività nel settore degli investimenti in titoli (che risulta assai concentrato - Tavola 2)8, favorendo sia le compagnie piccole e grandi che si avvalgono dei servizi delle banche di investimento sia gli investitori istituzionali e privati. E stato infatti stimato che, con l'abolizione del Glass-Steagall Act, i costi di sottoscrizione dei titoli potrebbero scendere in media di 10-15 punti percentuali, il che, considerato l'ammontare di emissioni di titoli non consentiti attualmente alle banche commerciali (circa 600 miliardi- di dollari l'anno), comporterebbe un risparmio annuo compreso tra i 600 e i 900 milioni di dollari. Tenendo inoltre conto della riduzione delle commissioni sulla sottoscrizione di carta commerciale e sulla consulenza in materia di acquisizioni e di fusioni societarie, il risparmio totale potrebbe raggiungere il miliardo di dollari l'anno - il che equivarrebbe approssimativamente al profitto netto annuo registrato dalle società di investimento in titoli negli ultimi quattro anni9. È infine evidente che l'abolizione del Glass-Steagall Act aprirebbe nuovi orizzonti non solo alle banche statunitensi, ma anche alle istituzioni straniere, molte delle quali già operano ne settore degli investimenti in titoli10. Con l'abrogazione del Glass-Steagall Act, le banche straniere, in particolar modo quelle giapponesi11, potrebbero infatti divenire importanti sottoscrittrici di titoli emessi da società statunitensi.

110

Tavola 2: Stati Uniti • Indici di concentrazione nell'attività di sottoscrizione in titoli, 1983-87 1 (valori percentuali) 1983

1984

1985

1986

1987

Mercati in cui le banche non possono sottoscrivere titoli

Titoli di imprese Quattro maggiori società di sottoscrizione Otto maggiori società di sottoscrizione

48.3 76.0

61.2 87.2

60.8 87.4

55.2 85.9

52.5 82.1

Obbligazioni di imprese Quattro maggiori società di sottoscrizione Otto maggiori società di sottoscrizione

57.0 86.3

67.5 90.7

65.2 90.3

60.4 90.4

56.3 86.9

Azioni Quattro maggiori società di sottoscrizione Otto maggiori società di sottoscrizione

45.4 66.8

51.3 74.7

51.1 77.9

42.4 68.1

44.6 70.3

Mercati in cui le banche possono sottoscrivere titoli

E uro-obbligazioni Quattro maggiori società di sottoscrizione Otto maggiori società di sottoscrizione

46.0 57.8

38.0 56.0

31.6 50.4

31.1 49.0

45.2 66.0

Obbligazioni statali e municipali Quattro maggiori società di sottoscrizione Otto maggiori società di sottoscrizione

46.6 60.8

31.7 48.0

27.1 42.3

33.2 51.1

26.9 41.9

1 Proporzione del valore totale delle nuove emissioni il cui sindacato di collocamento è guidato dalle quattro (otto) maggiori società di sottoscrizione. Fonti: Investment Dealer's Digest e Euromoney Bondware.

5. Stabilità e normativa prudenziale

I mutamenti avvenuti in campo bancario e finanziario nel corso degli anni Ottanta hanno modificato alcuni importanti aspetti del sistema finanziario negli Stati Uniti e negli altri maggiori paesi industriali, rendendo necessario un attento riesame delle strutture normative e di vigilanza. Sono emersi nuovi strumenti e nuovi intermediari finanziari. Il processo di innovazione e la globalizzazione dei mercati hanno reso meno precise le tradizionali distinzioni esistenti tra istituzioni e funzioni finanziarie. L'ambiente sempre più competitivo e la riduzione dei margini

111

di profitto hanno spinto le istituzioni finanziarie a introdurre nuovi strumenti il cui grado di rischio non è spesso facilmente valutabile. La proliferazione delle transazioni finanziarie ha allentato i legami esistenti tra i prestatori e i prenditori finali, rendendo perciò più problematica un'attenta valutazione del rischio. Più in generale, si può affermare che la crisi delle maggiori borse mondiali dell'ottobre del 1987 ha dimostrato che i legami sempre più stretti e la crescente interdipendenza tra i maggiori mercati mondiali non fanno che accelerare e amplificare la diffusione degli shocks a livello mondiale. Questi eventi hanno proposto la necessità di rafforzare la vigilanza nel settore finanziario. La decisione delle banche centrali e degli organi di vigilanza bancaria dei maggiori paesi industriali di fissare un livello comune del patrimonio per le banche che operano su scala internazionale12 è un passo importante in questa direzione. Tuttavia la crisi dell'ottobre del 1987 ha dimostrato che anche in paesi quali gli Stati Uniti, dove le attività di borsa e quelle bancarie sono tenute separate, esistono legami tra banche e società di investimento in titoli. Queste ultime fanno infatti ampio ricorso al credito bancario sia sul mercato all'ingrosso sia attraverso accordi di sostegno specifici13. Questi legami implicano che un eventuale grave problema incontrato dalle società di investimento mobiliare possa riflettersi anche sul sistema bancario. Non sembra quindi possibile isolare completamente le banche e gli organi di vigilanza bancaria dalle difficoltà in cui possono imbattersi le società di investimento in titoli. Ciò risulta ancora più vero alla luce della maggiore frammentarietà ed eterogeneità della normativa che regola il mercato dei titoli, dove il processo di globalizzazione si è affermato assai rapidamente. Pur non sottovalutando le difficoltà derivanti dall'elevato grado di segmentazione geografica e funzionale, la stabilità del sistema finanziario statunitense dovrebbe quindi essere garantita da un approccio di vigilanza maggiormente uniforme e integrato per le operazioni di tutti gli intermediari finanziari. Mentre le banche devono continuare a essere soggette a regole specifiche,

112

data la loro rilevanza nella creazione di liquidità; nel sistema dei pagamenti e nel processo di trasmissione della politica monetaria, vi è un crescente consenso sulla necessità di una normativa più incisiva sull'intermediazione non bancaria. La stabilità di un sistema finanziario fortemente integrato non può infatti essere pregiudicata da possibili crisi nei settori meno soggetti a controllo. Se si vuole evitare di compromettere la competitività delle banche o di obbligare queste ultime a dover scegliere tra perdita di quote di mercato e aggiramento delle norme è necessario prevedere efficaci forme di controllo anche per gli altri operatori finanziari. Infine, l'attenuazione del tradizionale grado di specializzazione all'interno del sistema finanziario, in cui le banche svolgevano la maggior parte dell'intermediazione, insieme alla nascita di un mercato globale, ha reso sempre più difficile la distinzione degli intermediari in base alle funzioni primarie svolte, così come l'elaborazione di una struttura normativa e di vigilanza che non dia luogo a un certo grado di sovrapposizione tra le varie autorità di controllo. Potrebbero così sorgere difficoltà nel caso in cui la vigilanza venga condotta secondo criteri funzionali e i singoli mercati siano controllati da diverse autorità. In questo modo due diversi organi di vigilanza si troverebbero a dover controllare, sia pure per aspetti differenti, lo stesso intermediario. Il rischio implicito in un approccio di questo tipo è quello di cogliere solo un aspetto di una realtà complessa, senza avere la visione di insieme dell'ampia gamma di operazioni condotte da una singola istituzione. La Commissione Brady, istituita dopo il crollo delle borse del 1987, ha raccomandato al riguardo che «...Un'unica istituzione dovrebbe coordinare i pochi, ma fondamentali aspetti normativi che hanno un impatto sui relativi segmenti di mercato e sull'intero sistema finanziario... La singola istituzione deve essere in grado di valutare a fondo l'interazione dei mercati — e non soltanto di regolamentarne i diversi segmenti. Essa deve avere una visione globale dell'intero sistema finanziario, sia nazionale sia estero, mantenendo allo stesso tempo indipendenza e prontezza di reazione...»14.

113

6. Conclusione

I profondi mutamenti che hanno interessato il campo bancario e finanziario negli Stati Uniti e all'estero hanno reso una riforma del Glass-Steagall Act auspicabile e, forse, inevitabile. I vantaggi che potrebbero derivarne sono evidenti solo se si considera il numero di casi in cui il Glass-Steagall Act è stato aggirato dalle banche commerciali e dalle società di investimento mobiliare. Un modo per eludere le barriere normative è stata la creazione da parte delle banche commerciali americane di affiliate off-shore per le operazioni in titoli e di banche a operatività limitata da parte delle società di investimento mobiliare. Una riforma del Glass-Steagall Act faciliterebbe la riallocazione delle risorse promuovendo una ristrutturazione del mercato dei servizi finanziari negli Stati Uniti. D'altra parte essa implica alcuni rischi, tra cui quello che la rete di protezione pubblica in favore delle banche possa venire estesa anche alle operazioni in titoli. Infatti, anche se le barriere create all'interno della holding bancaria e le restrizioni sulle transazioni reciproche, quali quelle proposte dal Financial Modernization Act, dovrebbero ridurre parte di questi rischi, resta la possibilità che, in caso di difficoltà, la banca possa assistere la sua affiliata che opera in titoli. Questo rischio può essere ridotto attraverso un adeguato grado di patrimonializzazione sia per le banche sia per le loro affiliate e con un sistema di vigilanza maggiormente integrato. Note 1 Questa proposta di legge è stata approvata dal Senato (il 30 marzo del 1988), ma non dalla Camera. Se dovesse entrare in vigore, questa legge permetterebbe alle banche di effettuare tutti i tipi di attività in titoli ad eccezione della sottoscrizione di azioni, che sarebbe possibile nel 1991 solo dopo una risoluzione congiunta del Congresso. 2 Tra queste misure va menzionato il coordinamento delle operazioni di mercato aperto da parte della Riserva federale e la creazione della Federai Deposit Insurance Cor-

poration (FDIC).

A questo proposito è stato fatto rilevare che il Glass-Steagall Act, pur non essendo riuscito a impedire che le banche di investimento svolgessero funzioni di

3

114

banche commerciali, ha invece avuto un discreto successo nell'evitare che le banche commerciali svolgessero attività di investimento. (Cfr. l'intervento di Robert L. Clarke, Comptroller of the Currency, alla Camera dei Rappresentanti, 22 aprile 1986). 4 Secondo i dati della Riserva federale, la quota delle attività delle banche commerciali sul totale delle attività del settore non finanziario è scesa dal 29% nel 1974 a circa il 24 nel 1987. C f r . C. N. DUNCAN e B. O . JOLLY, Banks in the Securities Business: A Regulatory Primer in M . COLER e E. RATNER (eds.), Financial Services, New Y o r k Institute of

5

Finance, 1988. 6 La decisione della Riserva federale dell'aprile del 1987 di consentire alle affiliate delle banche commerciali di sottoscrivere questi tre tipi di titoli è stata confermata dalla Corte Suprema nel giugno del 1988. 7

C f r . R. ALTON GILBERT, A Comparison

of Proposals

to Restructure

the Us Finan-

cial System, «Federai Reserve Bank of St. Louis Review», voi. 70, n. 4, luglioagosto 1988. 8 Nel periodo 1984-87 otto banche di investimento avevano guidato il sindacato di collocamento di circa l'86% del totale dei titoli societari emessi negli Stati Uniti; il mercato delle obbligazioni societarie risultava più concentrato di quello delle azioni (Tavola 2). 9

C f r . ROBERT LITAN, What Reforming

Glass-Steagall

Will Bring, « T h e International

Economy», marzo-aprile 1988. 10 Tra i maggiori paesi industriali, soltanto negli Stati Uniti e in Giappone esiste una separazione istituzionale tra l'attività bancaria e quella in titoli. In quest'ultimo paese ciò è un'eredità dell'immediato dopoguerra, allorché Tokyo adottò molti degli ordinamenti istituzionali esistenti negli Stati Uniti. Tuttavia, anche il Giappone sta considerando la possibilità di modificare la sua legislazione bancaria di tipo Glass-Steagall. Altri paesi (ad es. il Regno Unito e l'Italia), pur considerandole distinte, non operano una separazione istituzionale tra attività bancaria e quella in titoli. In questo caso le banche operano spesso in titoli attraverso sussidiarie specializzate, piuttosto che tramite la casa madre. Infine, in paesi quali la Germania federale e la Svizzera, caratterizzati da sistemi bancari di tipo universale, le banche possono effettuare ogni tipo di operazione in titoli e tradizionalmente svolgono un ruolo preminente nel mercato. 11 Nel 1987 le sette maggiori banche a livello mondiale erano giapponesi. La prima banca statunitense risultava appena in ottava posizione. 1 2 C f r . BANCA DEI REGOLAMENTI INTERNAZIONALI, Committee on Banking Regulations and Supervisory Practices «International Convergence of Capital Measurement and Capital

Standards», luglio 1988. Entro il 1992 le banche attive a livello internazionale dovranno detenere una base minima di capitale pari all'8% dell'attivo (le diverse attività di bilancio nonché gli impegni «fuori bilancio» vengono ponderati secondo la loro rischiosità) e sono costituiti almeno per la metà dal capitale primario, in modo da garantire ai depositanti un ampio margine di sicurezza. 13 Come sottolinea E. Gerald Corigan Presidente della Federai Reserve Bank di New York «... una delle ragioni per il recente rapido sviluppo della securitization è che in molti casi i titoli vengono emessi con caratteristiche tali per cui almeno alcuni dei rischi eventuali, di liquidità o di credito, vengono assunti dalla banca o da altri intermediari. E forse paradossale che mentre molti osservatori considerano i titoli la minaccia più grave alla stessa sopravvivenza economica del tradizionale intermediario bancario, sono proprio i fidi e le garanzie delle banche — e non

115

in piccola misura — a rendere attraente il processo di cartolarizzazione, e per gli investitori e per gli emittenti». C f r . E. G . CORRIGAN La struttura

del

mercato

finanziario: un approccio di lungo periodo, Documenti - Centro Alberto Beneduce, Roma 1988. 14

C f r . il Rapporto della Presidential

1988.

116

Task Force on Market

Mechanisms,

gennaio

NOISE TRADING AND THE EFFICIENCY OF FINANCIAL MARKETS An Investigation into the Dynamics of Exchange Rates and Stock Prices

Stephan Schulmeister,

Michael D. Goldberg

This paper draws heavily on two previous studies on the profitability of technical trading systems in the foreign exchange market (Schulmeisterl987) and in the stock market (Goldberg and Schulmeister 1988). We greatefully acknowledge financial support from the C. V. Starr Center for Applied Economics and from the Wissenschaftszentrum Berlin fùr Sozialforschung. The empirical work was done at the Austrian Institute of Economie Research and we are therefore particularly grateful to Eva Horvath who did ali of the statistical work and to Marianne Riese who wrote the computer program for the analysis of the profitability of technical trading rules. We are also grateful to Roman Frydman and Damien King for their many helpful comments. A special thanks goes to Erna Kernreich for typing the manuscript.



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1. Introduction

In the General Theory, Keynes distinguished between types of activities in the stock market — speculation and enterprise: If I may be allowed to appropriate the term speculation for the activity of forecasting the psychology of the market, and the term enterprise for the activity of forecasting the prospective yield of assets over their whole life, it is by no means always the case that speculation predominantes over enterprise. As the organisation of investment markets improves, the risk of the predominance of speculation does, however, increase. In one of the greatest investment markets in the world, namely, New York, the influence of speculation (in the above sense) is enormous (KEYNES 1964, p. 158p.).

In the parlance of today's economics, Keynes' speculators would be called noise traders. Such traders are interested only in the «psychology of the market», i.e., in «discovering what average opinion believes average opinion to be» (Keynes 1964, p. 159). Many of these market players attempt to profit from continuously buying and selling financial assets in the short run, without any concern for their long run prospective yields. In other words they completely ignore market fundamentals. Instead, they subscribe to a wide assortment of technical trading techniques, which in many cases merely extrapolate the most recent short-run price movements (i.e., only the information contained in past prices is used). The use of such technical trading strategies has increased strongly in the financial markets of the 1970s and 1 9 8 0 S 1 . This growth, however, runs counter to one of the most firmly rooted beliefs in economics and finance, namely, that financial markets are efficient. According to this view, no unexploited profit opportunities should be available in the market, i.e., market agents should be unable to earn returns systematically in excess of equilibrium expected returns (see Fama 1976). As such, noise trading is irrational and should be absent from the market. Efficient market theorists explain this apparent anomaly by recognizing that price runs, althoug unsystematic, do exist in an efficient market. A particular technical rule, therefore, may seem to be profitable during any given time period,

119

thus causing market agents to believe mistakenly that they have found a way to beat the market. But, given a sufficient amount of time, such traders will find that their rules are relatively unprofitable on average (see Elton and Gruper 1984 and Tomek and Querin 1984). Efficient market theorists thus view the presence of technical noise trading as a rather transient phenomenon. The purpose of the present paper is twofold. First, it reports the findings of a number of trading rule tests that were conducted in both the foreign exchange market and the stock market, using the dollar-deutschemark exchange rate and the S&P 500 and Dow Jones 30 price indices for the most recent experience of the 1970s and 1980s. The aim here is to test whether the foregoing view on noise trading is accurate, i.e., whether technical noise trading is an unprofitable and therefore transient phenomenon. The tests differ from earlier attempts in that: 1) we examine the profitability of several of the most popular technical trading techniques in both markets; and 2) we use hourly data and take into account the low cost of futures contracts in testing the trading rules in the market for stock2. The paper's second purpose is to contrast the findings of the trading rule tests in the foreign exchange market with those in the stock market. In doing so, we attempt to uncover certain features which may be characteristic of speculative prices in general. To this end, we also rely on some rather unconventional methods in quantifying the price dynamics in the two markets. The structure of the paper is as fallows. Section 2 elaborates upon the pattern of exchange rate and stock price movements. It is shown that a sequence of persistent upward and downward price runs, which are interrupted often by erratic fluctuations, is most typical of the dynamics of speculative prices in the short run. Section 3 presents the results of the trading rule tests based on gross returns. The analysis finds that the most popular technical trading systems have outperformed consistently the buy and hold strategy in both the foreign exchange market and the stock market by considerable margins. Hence, price movements in both markets are found to involve systematic price runs and to contain information relevant for predicting future price mo-

120

vements. In Section 4, we adjust gross returns for the cost of transacting. We find that the trading rules are quite profitable in the foreign exchange market, again consistently outperforming the buy and hold. In the stock market, the analysis reveals that while these rules are most likely unprofitable in the cash market for stock, they are extremely profitable in the futures markets for stock, the difference in profitability owing to the fact that futures transactions entail substantially lower transaction costs as well as lower margin requirements than do cash transactions. Thus, the information contained in past price movements is found to be exploitable in both the foreign exchange market and the market for stock, if the latter market is broadly defined to include stock index futures (and options), i.e., both the foreign exchange market and the stock market are found to be inefficient. Section 4 concludes with a short discussion on the importance of futures markets for technical noise trading. In Section 5, we report the results of an out-of-sample case study on the profitability of technical analysis during the month of October 1987. The object here is to examine the extent to which technical noise trading might have contributed to the stock market crash of October 19, 1987. The results provide indirect evidence that such trading did play a significant role in the collapse. Section 6 concludes the paper with a discussion on some of the puzzles the analysis raises.

2. Some Observations on the Pattern of Speculative Prices

In order for technical analysis to be profitable, the dynamics of speculative prices must involve exploitable regularities. In this section we make use of some rather nonstandard methods in order to examine this issue. These methods are able to quantify several specific characteristics inherent in the daily movements of speculative prices. The findings here will provide us with a foundation upon which to analyze the trading rule results. Figure 1 shows that the dollar appreciated between 1980 and 1985 in a sequence of upward and downward runs (monotonie or «almost» monotonie movements), which were interrupted ra-

121

DAILY MOVEMENTS OF THE DM/$ EXCHANGE RATE (1980-1985)

Figure 1

Source: AUSTRIAN INSTITUTE OF ECONOMIC RESEARCH

ther frequently by oscillations around a Constant level (this phenomenon is referred to as «whipsaws» by professional traders). It is clear that such a stepwise appreciation can be brought about in two different ways (or in some comination of the two). In one case, the appreciation runs may be steeper on average than the depreciation runs and it the other case the appreciation runs may last longer on average than the depreciation runs. Table 1 sheds light on this issue by separating the single appreciation runs from the single depreciation runs for the period between October 1980 and September 19863. The table indicates that the overall dollar appreciation which occurred between 1980 and

122

early 1985 was mainly due to the difference in the length of the appreciation and depreciation runs rather than to the difference in their slope. The upward runs lasted on average 7.19 days, while the downward runs lasted on average only 4.62 day. At the same time, the upward runs were only slightly steeper than the downward runs (0.53 Pfennig per day compared to -0.48 Pfennig per day). Similarly, the overall dollar depreciation which began in early 1985 was mainly due to the fact that the downward runs lasted almost twice as long as the countermovements (6.97 days as compared to 3.71 days). The importance of persistence in exchange rate runs for the overall process of appreciation and depreciation in the mediumterm (i.e., for medium-term trends) can be seen quite clearly by classifying the single upward and downward runs according to their duration. Table 1 shows that almost half of the 256 (twice 128) runs which occurred over the period between October 1980 and September 1986 lasted only 3 days or less; at the same time their slope (the change in level per day) was far below average. Thus, these shorter movements contributed very little to the overall process of appreciation and depreciation. If one sums the changes in level over ali upward runs, one obtains a hypothetical appreciation of 415.3 Pfennig (128 x 6.24 x 0.52). It turns out that the 54 shortest movements contributed only 23.8 Pfennig (5.7 percent) to this overall appreciation, whereas the contribution of the 11 ìongest runs was much greater (154.0 Pfenning or 37.1 percent). This phenomenon is even more extreme for the downward runs. The 10 Ìongest downward runs accounted for 50.6 percent of the overall hypothetical depreciation. Another way to view this is to focus on runs lasting 10 business days or more. It can be seen that the 27 Ìongest upward runs accounted for 81.2 percent of the overall hypothetical appreciation and the 17 Ìongest downward runs contributed 73.3 percent to the overall hypothetical depreciation. The reason for this concentration lies in one fact which is extremely important for an understanding of the profitability of technical analysis. Exchange rate runs tend to be steeper the longer they last (compare columns 2/3 and 5/6 in Table 1). Consequently, the profit from the correct identification of one lon-

123

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